CAPITOLO LII— Il viale dell’AURA

Il Sigillo, sotto la sciarpa, non smetteva di pulsare.

Non era un calore che scaldava: era un calore che domandava.

Come una mano invisibile che ti prende il petto e ti dice: “Adesso non puoi più fingere.”

Boruma camminava veloce, Cru al fianco, e nel passo aveva ancora l’eco dell’ultima notte: le ombre, le finte apparizioni, la voce che voleva comprargli l’anima con un ricordo perfetto.

Aveva visto quanto può essere preciso un inganno quando conosce il tuo dolore.

Eppure, mentre avanzava, non era la paura a crescere.

Era un’altra cosa: la consapevolezza di essere arrivato a un punto in cui l’uomo che sei stato torna a chiederti conto dell’uomo che stai diventando.

Il Sigillo lavorava così: non ti dava risposte.

Ti toglieva le scuse.

Cru gli sfiorò la gamba con la spalla, come a dire: ci sono.

Boruma gli posò due dita sulla nuca, senza fermarsi.

«Ambasciatore…» sussurrò. «Se mi vedi vacillare, fammi cadere in avanti. Mai all’indietro.»

Cru non abbaiò. Ma gli occhi sì: due lampade ferme.

E fu allora che accadde.

Non un attacco, non un rumore.

Solo una crepa nella mente, sottile, che si aprì come una porta.

Un odore di benzina e vento.

Un faro tondo.

Una Vespa.

E un Boruma diverso: più giovane, più fragile, più vivo di speranze che non sapevano ancora di essere speranze.

Il tempo in cui Boruma correva per non fermarsi

Era il periodo in cui studiava per diventare infermiere e lo faceva quasi con rabbia.

Non perché non credesse nel bene — il bene lo aveva dentro come una malattia santa — ma perché, in quegli anni, lui sognava altro: un’aula, una lavagna, una cattedra.

Sognava di insegnare storia e filosofia.

Di ripercorrere le orme del professore che al liceo lo aveva stregato senza nemmeno volerlo.

Il Prof era basso, grassottello, a un passo dalla pensione da sempre, con pochi denti in bocca e una sigaretta che sembrava parte del suo corpo quanto la saliva e l’ironia.

Fuori dalla scuola, stazionava come un monumento alla libertà: busta della spesa piena di quotidiani e libri, altri libri sotto l’altro braccio, e quel ciuffo bianco pronunciato che lo rendeva riconoscibile anche a cento metri.

Quando spiegava, però, non era più un uomo: era un incendio.

«Ragazzi!» gridava. «Voi credete che la storia sia una sequenza di guerre e re? MA NO! La storia è religione, è sete di senso, è paura della morte! E la filosofia… la filosofia è il tentativo disperato dell’uomo di non sentirsi solo nell’universo!»

Poi, quando si scaldava davvero, esplodeva in latino, in greco, in frasi teatrali che parevano invocazioni.

E Boruma, timido com’era, si sentiva visto.

Non giudicato, visto.

Pensava: voglio essere così.

Voglio insegnare. Voglio accendere. Voglio dare un senso.

E invece la vita gli aveva messo davanti la necessità, nuda e pratica:

se vuoi una famiglia, se vuoi un futuro, devi afferrarti a qualcosa che non dipende dai sogni.

Non aveva più la madre.

E la casa, senza madre, diventa un luogo che non ti riconosce.

Nonna Concetta lo amava con quella forma di amore che ti mette in mano il pane e ti dice “mangia” anche se hai la gola chiusa.

E nonno Raffaele — elegante, educato, un professore di altri tempi — gli insegnava senza insegnare.

Gli bastava uno sguardo.

Quando Boruma crollava, Raffaele non diceva “coraggio”, non faceva discorsi.

Si aggiustava il colletto, lo guardava con dolce severità e diceva:

«Nella vita non contano i titoli. Conta la schiena. E la schiena si allena.»

Boruma si portava dietro quella frase come ci si porta dietro una moneta antica: non per spenderla, ma per ricordarsi di chi te l’ha messa in tasca.

Lorena e il mondo prima dei cellulari

Fu in quell’estate che arrivò Lorena.

La conobbe a una festa di amici, in un tempo in cui per vedersi si doveva avere una cosa rara: la parola data.

Nessun messaggio, nessuna scusa digitale. Solo un luogo e un’ora.

Boruma arrivò in ritardo di dieci minuti.

Lei lo guardò e, invece di fare la scena, fece la cosa più intelligente del mondo: lo ferì con dolcezza.

«Ah, sei arrivato. Pensavo ti avessero fermato… per eccesso di timidezza.»

Era bellissima. Mora, occhi grandi e neri, labbra carnose.

Napoletana fino al midollo, ma con quell’impronta del Vomero: un’eleganza naturale, e una sicurezza che non chiedeva permesso.

Boruma arrossì. E sorrise.

E lì capì una cosa: si può spezzare il ghiaccio senza fare rumore.

Con Lorena sentì per la prima volta il sapore di un futuro immaginabile:

una casa, una tavola, una domenica che ricomincia.

Ma c’era anche l’altra faccia, quella che lui percepiva senza volerla guardare: l’aria di superficialità nei confronti del suo percorso.

Non tanto da lei — lei gli voleva bene davvero — ma attorno.

Specialmente dal padre di lei, che lo osservava come si osserva un ragazzo “bravo”, sì… ma non “adatto”.

Boruma veniva da un quartiere popolare, non aveva i genitori, aveva la dignità come unica eredità.

E quella dignità, quando sente l’etichetta, diventa nervosa.

Non lo faceva soffrire l’ambizione degli altri.

Lo faceva soffrire l’idea di essere ridotto a un’aspettativa.

«Sembra che per essere rispettato devi avere un titolo che fa rumore» disse una sera alla nonna.

Concetta impastava e rispose senza guardarlo, come se stesse parlando con l’universo:

«Borù… il rispetto è come il ragù. Se lo fai bene, profuma pure senza urlare.»

Pony Express, la Vespa melanzana e la scoperta che lo salvò

Per amore, per dignità e per necessità, Boruma cercò un lavoro.

E trovò la cosa più adatta a lui senza saperlo: pony express.

Una Vespa Special, faro tondo, colore melanzana.

Una pettorina.

E Napoli come labirinto.

Corse tra tirocinio, lezioni, consegne.

Corse così tanto che senza accorgersene stava costruendo la sua vera preghiera: la fatica.

Quel giorno sbagliò strada.

O forse la trovò.

Salì per un viale alberato, laterale a una zona che conosceva a metà, e mentre salivo — ricordò — sembrava di uscire da Napoli e entrare in un paese di costiera.

Silenzio strano, aria diversa, luce più calma.

Quando arrivò in cima, accadde.

Un panorama.

Non “un bel panorama”: il panorama.

La città, al tramonto, distesa come una creatura viva.

Un’armonia che non aveva bisogno di essere compresa.

Boruma fermò la Vespa.

Non perché fosse stanco.

Perché gli tremò il petto.

Non sapeva perché, ma sentì chiaramente una sensazione che lo avrebbe accompagnato tutta la vita:

come se attorno a lui esistesse un’aura protettiva, qualcosa che non lo abbandonava anche quando la vita gli faceva guerra.

In quel punto capì una cosa semplice e enorme:

anche se perdi tutto, non perdi la possibilità di ringraziare.

E le paure, per la prima volta dopo la morte della madre, diventarono più leggere.

Non sparirono.

Ma smisero di comandare.

Il pub, la gente, e la prima vera vocazione

Poco dopo lasciò il pony express e iniziò a lavorare in un pub.

Serate infinite, tre ore di sonno a notte, e la divisa impregnate di fumo e risate.

Ma quel lavoro — che molti avrebbero chiamato “di passaggio” — fu il suo primo vero tirocinio umano.

Imparò la cosa che poi lo avrebbe reso un infermiere raro:

il sorriso è un ponte.

E con la gente imparò a essere rapido, presente, empatico senza diventare fragile.

Imparò a leggere i volti. A capire quando una battuta salva più di un consiglio.

Imparò a non farsi intimidire.

I suoi datori di lavoro gli offrirono un indeterminato.

E lui, per un attimo, vacillò.

C’era Lorena.

C’era Napoli.

C’erano le certezze.

E c’era la voce del destino che non fa domande: si limita a bussare forte.

Fu allora che entrò davvero nella sua vita Dante.

Dante, la luce nel cuore e la spinta verso l’ignoto

Dante lo aveva incontrato a un matrimonio, anni prima.

Grande e grosso, faccia simpatica, napoletano devoto alla Madonna delle Grazie e a San Pio.

Di giorno commesso a via Toledo, elegante anche nel modo di porgere una scatola; di sera apostolo tra i ragazzi.

Non predicava.

Raccoglieva.

Riempiva autobus, portava i giovani a San Giovanni Rotondo, e li faceva ridere e piangere come si fa con chi non deve essere giudicato ma salvato.

A Boruma disse una frase che gli cambiò la traiettoria:

«Guagliò, tu tieni ‘a luce dint’ô core. E si t’‘a tieni sulo pe’ tte, diventa febbre. Si ‘a porti agli altri, diventa cura.»

Boruma, che allora ripudiava quasi l’idea di fare l’infermiere, si sentì inchiodato.

«Io volevo insegnare…» confessò.

Dante lo guardò come si guarda un figlio con un dono non ancora scartato.

«E chi t’ha ditto che non insegnerai?

L’infermiere è ’nu maestro senza cattedra. E quanno fai bene, insegni a campà.»

Poi gli disse un’altra cosa, più dura:

«Se resti a Napoli per paura, non è amore. È prigione.

Vattenne, Borù. Chi tene fede nun se perde.»

E Boruma partì.

Lasciò Napoli con il cuore spezzato e la dignità dritta.

Lasciò la nonna ancora viva.

Lasciò gli amici.

Lasciò Lorena.

La storia con lei durò ancora qualche anno, a strappi, a distanze, a promesse che si sbriciolano senza colpa.

Poi arrivò il punto: Lorena disse che non sarebbe mai andata via da Napoli.

E lui capì.

Non voleva tradirla.

Non voleva essere un uomo che si tiene un amore per non stare solo, mentre dentro si sta già allontanando.

La lasciò.

Seppe che lei soffrì molto. Dimagrì.

Poi seppe anche che aveva incontrato un bravo ragazzo che le voleva bene.

E Boruma, con quella strana moralità che lo rendeva più uomo che “romantico”, provò gratitudine.

È stata il mio primo amore, ma non la mia vita.

Ritorno al presente: il Sigillo e la scelta della Casta

Il ricordo si chiuse come si chiude un libro antico.

Non con uno schiocco, ma con un peso.

Boruma si fermò un secondo, in quella realtà densa dove il tempo sembra pieno.

Cru alzò il muso.

Il Sigillo pulsò più forte.

E allora Boruma comprese il nodo vero:

la Casta non voleva soltanto “un oggetto”.

Voleva controllare la cosa più pericolosa che esista: la speranza.

La speranza rende disobbedienti.

Rende liberi.

E un popolo libero non è governabile con la paura.

Nayla gli aveva detto: “Il Sigillo è uno specchio.”

E gli specchi fanno crollare i travestimenti.

Per questo lo inseguivano.

Non perché il Sigillo fosse un’arma, ma perché disinnescava le armi.

Cru emise un ringhio basso.

Non di panico: di avviso.

Boruma sentì, in quel momento, l’impronta del suo passato diventare presente:

non era coraggio nato dal carattere.

Era coraggio nato dall’esperienza.

Bullismo, perdita, notti, ospedali, pazienti terminali, la nonna che non lo riconosceva più, la madre portata via lentamente, la fede come filo che non si vede ma regge.

E anche quella cosa terribile e bella:

Boruma non aveva più paura di perdere, perché aveva già perso.

E proprio per questo adesso poteva scegliere la vita senza ricattarsi.

Si passò due dita sulle scarpette — gesto minuscolo, quasi superstizioso — e sorrise.

«Nonna… oggi niente ragù. Oggi si friggono uomini in nero.»

Cru lo guardò come se avesse capito l’ironia.

E allora accadde l’unica cosa che in un racconto vero non manca mai:

il mondo smise di essere tranquillo.

L’agguato

Non li circondarono con clamore.

Non gridarono.

La Casta non aveva bisogno di scena.

Arrivarono come arrivano le cattive notizie: quando sei distratto a respirare.

Due figure emersero da una traversa, una terza da dietro.

Lame corte, guanti, occhi senza luce.

Una voce, calma:

«Consegnaci il Sigillo. Non ti serve. Non ti appartiene.»

Boruma guardò l’uomo come avrebbe guardato un collega arrogante che pretende di insegnargli l’empatia:

«Nemmeno la bontà mi appartiene. Eppure la uso lo stesso.»

Il primo scattò.

Boruma non arretrò: ruotò.

Il corpo ricordava la corsa, gli sprint, i cambi di direzione.

Afferrò il polso, torsione netta, e la lama cadde con un suono secco.

Cru partì come un fulmine e bloccò il secondo, non alla gola, non alla carne: al braccio protetto.

Fermezza senza ferocia.

Boruma, senza smettere di respirare, disse piano:

«Cru, diplomazia… ma decisa.»

Il terzo tentò di aggirarlo per strappare la sciarpa dal petto.

E lì Boruma sentì qualcosa in sé diventare leone: non rabbia cieca, ma odio lucido contro la cattiveria gratuita, contro chi usa l’ombra per piacere o per potere.

Un colpo corto al ginocchio.

L’uomo cedette.

Boruma lo afferrò per il colletto e lo spinse contro un muro, senza schiacciarlo:

«Ascolta bene: io sono un infermiere. Io salvo.

Ma se tocchi questa sciarpa… oggi imparo un’altra grammatica.»

L’uomo rise, sputando.

«Tu credi di essere libero. Ma la tua libertà è un lusso. La gente ha bisogno che qualcuno decida per loro.»

Boruma lo guardò come il Prof guardava la classe quando parlava di imperi.

«No. La gente ha bisogno che qualcuno li ami abbastanza da non decidere al posto loro.»

Il Sigillo, sotto la stoffa, pulsò.

E per un istante, sulle pupille dell’uomo, Boruma vide un riflesso: come un lampo di verità che lo spaventò.

L’uomo sbiancò.

E capì.

Il Sigillo non era soltanto “portato” da Boruma.

Stava rispondendo a Boruma.

Fu in quell’attimo di incertezza che Boruma fece ciò che sapeva fare meglio:

non vincere, ma andare avanti.

Spinse via l’uomo, prese Cru, e scattò.

Non una fuga: una corsa strategica.

Corpo basso, traiettoria pulita, respiro governato.

Il Sigillo bruciava, ma lui non lo lasciò comandare.

Gli tornarono addosso le parole di Dante:

“Chi tene fede nun se perde.”

E quelle di nonno Raffaele:

“Conta la schiena.”

E quelle della nonna:

“Il rispetto, se lo fai bene, profuma senza urlare.”

Boruma sorrise mentre correva, e quel sorriso era una bestemmia contro il pessimismo leopardiano, contro chi crede che la vita sia condanna:

«La vita non va capita… va vissuta.»

Cru lo seguì.

Dietro, i passi della Casta non erano più solo passi: erano promessa di persecuzione.

Davanti, il destino non era più solo destino: era scelta.

E dentro il petto, insieme al calore del Sigillo, c’era una presenza che lo faceva male e bene:

il pensiero di Rosy — non come volto, non come desiderio, ma come possibilità che faceva paura.

Perché Boruma aveva sempre saputo perdere.

Ma non era sicuro di saper restare.

Eppure correva.

Perché correre, per lui, era l’unico modo di dire al mondo che non avrebbe rinunciato al dono più grande:

la vita — e l’amore che la rende degna.

Il Sigillo pulsò un’ultima volta, come un battito aggiunto al suo.

E la notte, da qualche parte, ricominciò a muoversi.

Non per spegnerlo.

Per inseguirlo.

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