Il vento del deserto soffiava alle spalle di Boruma come un respiro ancestrale.
La strada verso Alessandria era un nastro di luce che si perdeva nell’orizzonte, e ogni passo diventava una preghiera, una memoria, un desiderio.
Cru correva qualche metro più avanti, poi si voltava, come se temesse che il suo compagno potesse dissolversi nell’aria.
Boruma sentiva ancora sulla pelle il sale del mare e negli occhi l’immagine di Rosy — i capelli neri che il sole trasformava in rame, lo sguardo ambrato, fermo e dolce insieme.
Ogni tanto sorrideva da solo, come un ragazzo colto in fallo dal proprio cuore.
Eppure, subito dopo, una fitta leggera lo riportava alla realtà.
L’amore, per lui, era un campo minato: troppo dolore alle spalle, troppi addii.
Ma dentro di sé, una voce sussurrava che forse, stavolta, poteva essere diverso.
Il deserto si stendeva come un lenzuolo d’oro, e il ritmo dei suoi passi divenne ipnotico.
Il respiro si fece lento, profondo.
Un passo, poi un altro, e un altro ancora.
Finché il corpo si arrese al sonno, e il sogno lo accolse come una madre che apre le braccia.
⸻
Era la cucina di Napoli.
La finestra socchiusa lasciava entrare la luce del mattino, e nell’aria galleggiava un profumo che sapeva di infanzia: pomodoro, basilico, zucchero, rhum.
Il ragù sobbolliva piano, la moka sbuffava sul fuoco, e un disco di Eduardo Bennato gracchiava in sottofondo.
Sua madre era lì, col grembiule a fiori, il sorriso gentile e i movimenti leggeri di chi conosce il ritmo del tempo.
Girava il sugo con calma, canticchiando sottovoce una canzone di Natale.
Accanto a lei, nonna Concetta impastava la sfoglia, le mani forti e nodose come radici, gli occhi vivaci di chi ha visto tutto ma non ha mai smesso di credere nel bene.
Vicino al pianoforte, seduto con la schiena dritta e un bastone di legno d’ulivo accanto alla sedia, c’era nonno Raffaele — elegante, discreto, il nodo della cravatta perfetto anche nei sogni.
Boruma entrò nella stanza e si fermò sulla soglia.
«Allora era vero,» mormorò, «il Paradiso sa di ragù.»
La nonna rise, senza smettere di impastare.
«Altroché, Borù. Chi cucina con amore non muore mai, resta in ogni profumo.»
La madre lo guardò teneramente.
«Vieni ad assaggiare, figlio mio. È pronto, e come al solito tu arrivi tardi.»
Boruma si avvicinò, prese un cucchiaio e assaggiò. Il sugo era perfetto, denso, sincero.
Chiuse gli occhi, e in quell’istante tornò bambino: mani sporche di farina, voci che si accavallavano, il rumore dei piatti, le risate dei cugini.
Un mondo perduto, ma ancora vivo in qualche parte della sua anima.
Poi la voce gli uscì da sola:
«Mamma, nonna… ho conosciuto una donna. Si chiama Rosy. È forte, piena di luce, ma io ho paura. Ogni volta che amo, perdo.»
La madre gli prese il volto tra le mani, come quando era piccolo.
«Figlio mio,» disse piano, «non si smette di amare per paura. L’amore è come questo sugo: se lo lasci sul fuoco senza curarlo, si rovina. Ma se lo mescoli ogni giorno, diventa sempre più buono.»
La nonna gli diede una pacca sulla spalla.
«E poi guarda che fortuna: il cielo ti ha mandato una donna che non scappa davanti al dolore. Non lasciartela scappare tu.»
Nonno Raffaele si alzò, il bastone che toccava appena il pavimento.
«Senti a me, Boruma,» disse con voce pacata, quasi solenne.
«Le anime buone come la tua non trovano mai pace finché non condividono la loro bontà con qualcuno. Non cercare una donna che ti curi, ma una donna da curare insieme. E se hai paura, ricordati: il coraggio non è mancanza di paura, ma la decisione di camminare nonostante essa.»
Boruma abbassò lo sguardo, con un nodo alla gola.
«Io volevo una famiglia, nonno. Dei figli. Il rumore dei pranzi, le risate… come adesso.»
La madre gli sorrise dolcemente.
«Allora smetti di sognarla, Borù. Vivila. Non tutti hanno una seconda possibilità, ma chi la riceve deve onorarla.»
Sul tavolo, apparvero tre piatti:
uno portava inciso Rosy,
uno Futuro,
e il terzo Fede.
La nonna gli mise in mano un pezzo di pane caldo.
«Questo portalo con te. È il pane della nostra casa. Quando ti sentirai solo, spezzalo. E ricorda: il pane condiviso sa sempre di amore.»
Il nonno posò una mano sulla sua spalla.
«Vai, Boruma. Corri, come hai sempre fatto. Ma stavolta non per scappare. Corri per tornare.»
Le parole si dissolsero come fumo.
Il profumo di pomodoro si mescolò al vento del deserto.
Il sogno svanì.
⸻
Boruma si svegliò con la pelle umida e il cuore gonfio.
Cru dormiva accanto a lui, ma muoveva la coda, come se anche lui avesse sognato la cucina di Napoli.
Boruma sorrise.
Prese dallo zaino un pezzo di pane, lo spezzò in due e ne diede metà al suo compagno.
«È vero, nonna,» mormorò. «Il pane condiviso sa di casa.»
Fuori, l’alba d’Egitto stendeva il suo velo rosa e oro sulle dune.
Boruma si alzò, si legò le scarpe, e con un’ultima occhiata al cielo, iniziò a correre.
Ogni passo era un ricordo, una promessa, una preghiera.
E mentre il vento gli soffiava addosso, la voce della madre gli tornò chiara come la luce del mattino:
«Corri, Borù… ma ricordati di restare.»
Cru gli corse accanto, felice.
Il mare di Alessandria lo attendeva all’orizzonte.
E per la prima volta dopo tanto tempo, Boruma non correva verso il dolore.
Correva verso la vita.

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