Alessandria dormiva come una regina antica, con il mare a farle da mantello e le stelle sparse tra le sue torri di pietra.
Il vento del porto portava odore di alghe, di rame e di spezie; soffiava tra le colonne corrose della Biblioteca, tra i minareti e i cortili, accarezzando la sabbia che s’insinuava ovunque, come il tempo che non smette mai di contare.
Boruma camminava lungo il molo, la sciarpa stretta attorno al collo e il Sigillo ben nascosto sotto la giacca.
Cru lo seguiva a passo lento, fiutando l’aria, attento a ogni ombra.
Avevano lasciato il Custode delle Sabbie da poche ore, ma le sue parole gli rimbombavano ancora in testa come tamburi antichi.
“Non è l’oro che temono, Boruma. È la luce che quell’oro riflette.”
Sospirò, voltandosi verso il mare. Alessandria gli sembrava sospesa tra due mondi — quello terreno delle strade rumorose e quello invisibile delle memorie antiche.
Le onde si infrangevano lente, e in quel ritmo riconobbe la stessa cadenza del respiro di Rosy: calma, profonda, piena di vita.
Le mancava. Non come si manca una persona, ma come si manca una possibilità non ancora vissuta.
Camminò ancora, finché non giunse davanti a un vecchio caffè sul lungomare. Le lampade a olio disegnavano cerchi di luce tremolante sui tavoli.
Un uomo lo attendeva nell’ombra, vestito di lino scuro, barba corta, occhi come lame d’ambra. Sembrava un erudito, ma i movimenti erano quelli di chi sapeva difendersi.
«Ti aspettavamo,» disse l’uomo con voce pacata.
Boruma lo fissò: «Chi siete?»
«Coloro che restano. Quelli che sanno che troppa verità può bruciare il mondo.»
Cru ringhiò basso.
L’uomo alzò le mani. «Niente armi. Non sono qui per ferirti. Solo per parlarti… prima che lo facciano loro.»
Dal buio, alle sue spalle, tre figure avanzarono silenziose. Erano i simboli viventi della Casta: tuniche leggere, croci e medaglioni, amuleti e frasi sacre che si fondevano come in una preghiera corrotta.
Uno di loro portava una maschera bianca, liscia, senza tratti. L’altro teneva un bastone d’osso. Il terzo aveva gli occhi cerchiati di rosso: non sembravano umani.
«Boruma di Napoli,» disse il mascherato. «Ti sei spinto dove nessuno doveva arrivare. Il Sigillo non è tuo, e non è del mondo. È la bilancia tra luce e ombra. Chi lo tocca, lo altera.»
«Io non l’ho toccato per possederlo,» rispose Boruma. «L’ho preso per impedirvi di usarlo. Voi lo avete contaminato, avete reso l’amore una merce.»
«L’amore è una merce,» ribatté l’uomo dagli occhi rossi. «Come la fede, come la pace. Tutto si vende, se c’è chi compra.»
Boruma scosse il capo, lentamente. «E voi siete i mercanti del dolore.»
Un lampo di rabbia tagliò l’aria.
Cru scattò avanti, un passo appena, come un soldato che misura il nemico.
L’uomo che non aveva parlato — quello in lino scuro — si mise tra loro: «Basta. Vi state ripetendo da secoli. Non è questo che lui deve sapere.»
Boruma lo fissò. «Tu non sei come loro.»
L’altro sorrise. «Non ancora. Io ero il loro scriba. Scrivevo la storia che volevano fosse ricordata. Ma ho letto troppo. Ho visto le origini del Sigillo.»
Fece un passo avanti, il vento gli scosse la veste.
«Il Sigillo nacque come promessa, Boruma. Fu creato da tre sapienti — un rabbino, un monaco e un sufi — in un’epoca in cui le parole valevano più delle armi. Volevano unire i popoli con un simbolo che parlasse tutte le lingue. Un cerchio perfetto di amore e ragione. Ma poi vennero i re, e i mercanti, e i sacerdoti avidi. Lo chiusero nei templi, ne fecero reliquia e minaccia. Chi cercava di rivelarlo moriva, chi tentava di distruggerlo impazziva.»
Boruma restò in silenzio.
L’uomo continuò: «Noi, la Casta, siamo i custodi corrotti. Proteggiamo l’ignoranza perché la conoscenza toglie il potere. Il Sigillo può insegnare agli uomini a vivere senza padroni, senza paura, senza guerra. Ma se accadesse, i nostri imperi crollerebbero.»
Una risata amara gli sfuggì di bocca. «E allora lo chiamiamo “sacrilegio” e lo teniamo sepolto. È più facile.»
Boruma lo guardò a lungo. «E tu perché me lo dici?»
«Perché hai corso abbastanza da meritarti la verità. E perché io non ho più la forza di mentire.»
Il vento aumentò, e la sabbia cominciò a sollevarsi dal molo. Le luci tremolarono.
L’uomo dagli occhi rossi avanzò. «Hai detto troppo.»
Un colpo secco, un lampo di lama. Il traditore si piegò su se stesso, le mani strette al petto.
Boruma lo afferrò prima che cadesse del tutto. Il sangue gli macchiò le mani, ma lo sguardo del morente restava lucido.
«Non lasciare che lo distruggano,» mormorò. «L’amore non è un segreto, Boruma. È una lingua da insegnare.»
Poi chiuse gli occhi.
Cru ringhiò. Boruma si voltò, ma la Casta era già svanita nel buio, lasciando dietro di sé solo il suono di passi sull’acqua.
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Boruma rimase inginocchiato sul molo, il corpo del traditore tra le braccia.
Il Sigillo, sotto la giacca, pulsava come un cuore.
Guardò il mare e per un istante gli parve di vedere, tra le onde, il volto di Rosy — i suoi occhi ambrati, la dolce fermezza di chi non ha paura di amare anche quando il mondo crolla.
«Forse avevi ragione,» sussurrò. «Il vero Sigillo siamo noi. Tutti quelli che non smettono di cercare la luce.»
Cru posò la testa sulle sue ginocchia.
Dietro di loro, Alessandria cominciava a risvegliarsi:
un canto di muezzin, il profumo del pane appena sfornato, i primi raggi del sole che rompevano la notte come una promessa.
Boruma si alzò, guardò il mare, poi la strada che portava a sud.
Il viaggio non era finito.
E nel silenzio che precede ogni rinascita, la voce della nonna tornò a parlargli, chiara come un soffio:
“Ricordati, Borù: chi porta amore cammina sempre avanti, anche quando non sa dove va.”

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