Quanti granelli di polvere si sono posati, anche quest’anno, su queste sfere di cristallo…
In due settimane hanno contribuito a ravvivare quello spirito che dovrebbe tornare a galla, puntuale, ogni dicembre. Hanno assorbito le risate sui volti distesi di uomini, donne e bambini, entusiasti per quei brevi ma intensi ritrovi familiari. Ora, a malincuore, verranno lucidate e riposte con cura: torneranno a brillare, forse, tra meno di 365 giorni.
È curioso, però. Viviamo in un’epoca in cui possiamo trasmettere video in diretta da un oggetto piccolo quanto una vecchia calcolatrice, scrutare stelle lontane milioni di chilometri, raggiungere mete in tempi impensabili…
Eppure, non esiste alcun modo per raccogliere i ricordi impressi in un oggetto che ci è appartenuto davvero.
Immagino spesso quanto potrebbe influire sui nostri sentimenti una simile invenzione. Ma forse è meglio così. Non tutti i Natali sono uguali: ognuno di noi viene modellato, anno dopo anno, dallo scorrere impietoso della vita.
Se avessimo quella possibilità, forse non servirebbero fantasmi del passato o del futuro per farci comprendere e accogliere i frammenti del nostro vissuto.
Personalmente, se potessi, chiederei solo di rivedere alcuni gesti, di riascoltare alcune voci — quelle delle persone care che non sono più accanto a me da troppo tempo.
Di quei pochi flashback infantili che ancora conservo, ricordo l’arrivo delle vacanze natalizie come una cesura: una linea che separava il grigiore dell’autunno da qualcosa di nuovo e luminoso.
Da bambino meteoropatico, ho sempre percepito il tempo tra fine estate e Natale come un’anticamera vuota, quasi inutile. Le feste, invece, irrompevano con una forza vitale capace di restituirmi senso, entusiasmo e calore.
Per due settimane, la mia anima era attraversata da un raggio di gioia: i parenti intorno, le luci ovunque, la città vestita a festa, la magia che avvolgeva ogni gesto.
Mia madre, i nonni, gli zii: ognuno sapeva esattamente dove posizionare ogni tassello per rendere quei giorni memorabili. Non si trattava solo di addobbi o di cibo, ma di uno stato mentale, di un invito alla bontà, all’altruismo, a una forma di bellezza che oggi riconosco come rara e preziosa.
Mi insegnarono, senza mai obbligarmi, che le tradizioni non devono essere necessarie per forza… ma che sanno rendere l’anima più leggera, più aperta alla meraviglia.
E così, da bambino, mi sentivo un piccolo principe. Nulla mi mancava.
Ma — lo sapete, cari vecchi amici — la felicità non dura per sempre.
Quando mia madre si ammalò, la mia esistenza fu attraversata da un Big Bang tutto mio, intimo, devastante.
Dopo la sua morte, nulla fu più come prima. La famiglia che avevo conosciuto si sgretolò in poco tempo e io, negli anni successivi, imparai ad accettare quei giorni con filosofia. Sognavo ancora la magia del passato, certo… ma con il cuore rivolto a costruire qualcosa di nuovo, mio.
Terminati gli studi, diventai infermiere e mi trasferii al nord. Il lavoro nel mio sud era solo un’illusione — e come me, tanti ragazzi e ragazze, madri e padri, lasciarono tutto per rincorrere una vita possibile.
Sui loro volti leggevo la stessa amarezza che mi abitava: quella distanza dai propri cari che, a Natale, si faceva insopportabile.
Anche io, per anni, ho passato le feste in solitudine. E anche in quelle occasioni, mi ripetevo:
“Passerà. I sacrifici daranno frutti.”
Dopo qualche anno, tornai nella mia città. Stanco, temprato, pronto a diventare — pensavo — un adulto maturo.
Credevo che le esperienze, i dolori, gli incontri mi avessero reso saggio. Ma avevo dimenticato l’imprevedibilità della vita.
Tra tante donne, ne incontrai una segnata da ferite d’infanzia che le impedivano di generare bene. La nostra storia fu difficile, tormentata. Urla, oggetti rotti, feste trasformate in campi di battaglia…
Ma da quell’unione nacquero due splendidi bambini dai capelli rossi.
Dopo otto anni, decidemmo di separarci. Otto anni che mi hanno modellato ancora una volta, ma che hanno anche reso indissolubile il legame con i miei figli.
Avrei voluto per loro un Natale come quelli che avevo vissuto io. Ma gli eventi, si sa, non si replicano. Proprio perché unici, diventano speciali.
Nonostante tutto, credo di essere riuscito a lasciare un segno nei loro ricordi. Malgrado le tensioni, ho fatto di tutto per impreziosire la loro memoria con luci, decorazioni e, soprattutto, con l’anima: quella che ti spinge avanti anche quando tutto intorno sembra crollare.
Poi è arrivata lei.
La mia compagna.
Non solo ha ricucito l’equilibrio che avevo perso, ma è diventata complice dei miei pensieri, dei sogni e delle scelte.
Abbiamo deciso di ricominciare altrove. Lontani 400 km dalla città, dai bambini, da tutto ciò che di tossico avevamo lasciato.
La distanza dai miei figli a volte brucia, è vero.
Ma quando ci vengono a trovare, si respira serenità.
Anche quest’anno, sono arrivati. Un po’ in ritardo rispetto al Natale, ma carichi di quella forza capace di risvegliare il bambino che ancora vive dentro di me.
In quei giorni, la magia è tornata. E non la dimenticherò.
Perché il Natale non è una corsa ai regali, non è PIL, né Borsa, né pance sazie.
È la nascita della speranza.
Quella speranza che rincorriamo ogni giorno per dare senso a ciò che siamo.
Un collante invisibile, potente, universale.
Uno stato mentale da custodire, proteggere, tramandare…
come un mosaico prezioso, composto da tessere lucenti e fragili, posate una ad una da quella Mano che tutto vede, e tutto sa.
Adeste Fideles J.F. Wade

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