Il treno espresso Napoli–Milano fendeva la notte come una lama lenta e silenziosa, lasciandosi alle spalle città, volti, calore. Era una fredda sera di dicembre del 1998, e Piero se ne stava rannicchiato vicino al finestrino, le mani in tasca, lo sguardo perso nel buio che correva fuori.
Aveva ventun anni. E dentro di sé portava più silenzi che parole.
Non sapeva esattamente dove stesse andando. L’agenzia interinale gli aveva detto solo: “Parti. A Brescia cercano infermieri.” Ma chi lo aspettava, quale ospedale, che turni, che condizioni… nessuno glielo aveva spiegato davvero. Non c’erano certezze, se non un biglietto di sola andata e un numero di telefono da contattare una volta arrivato.
Napoli era rimasta indietro. La sua città. La sua storia. La sua gente.
Aveva lasciato tutto: il profumo del caffè nei vicoli, la voce della nonna che si spegneva piano, il sorriso di lei—quel sorriso che conosceva meglio del suo.
E ora, su quel treno che tremava ad ogni giuntura, Piero si domandava se stava facendo la cosa giusta.
“Forse dovevo restare. Forse bastava continuare a fare il cameriere…”
Mentre studiava da infermiere, lavorava in un pub al Vomero. Le notti erano lunghe ma leggere: spillava birre, serviva piatti, raccontava battute. Si sentiva parte di qualcosa. I colleghi erano amici. Alcuni lo chiamavano “Dottò”, con quella leggerezza napoletana che rende tutto meno grave. Aveva un posto. Un ritmo. Una sicurezza.
Ma dentro di lui bruciava un vuoto.
Non aveva i genitori, Piero. La vita glieli aveva portati via presto, troppo. Era cresciuto con la nonna, una donna forte e silenziosa che gli aveva fatto da madre, padre e coscienza. Ma ormai era anziana, fragile, e lui l’aveva lasciata lì, sola. Solo un bacio sulla fronte e una promessa: “Appena sistemo le cose, torno a prenderti.”
Era questa la vera ragione per cui stava partendo.
Non per guadagnare di più.
Non per fuggire.
Ma per costruire.
Per cercare una casa, una famiglia, un futuro che non gli era mai stato dato.
“Chi non ha radici, deve piantarle da qualche parte,” pensò.
Fuori, il buio del Sud diventava nebbia del Centro. I paesaggi mutavano, e con essi la paura. Non era il freddo a farlo tremare, ma l’ignoto. Un’agenzia, un contratto settimanale, un letto provvisorio. Lui, che sognava abbracci e bambini, si trovava a stringere una valigia e a stringersi nelle spalle.
E poi c’era lei.
Era venuta alla stazione, ma era rimasta sul motorino. Aveva solo alzato la visiera e lo aveva guardato. Gli occhi lucidi. Nessuna parola. Un cenno. Un addio muto.
Piero avrebbe voluto correre da lei, dirle che aveva paura, che non era sicuro, che forse non ce l’avrebbe fatta.
Ma era tardi.
Il treno era partito.
Si appoggiò al finestrino, cercando il riflesso di qualcosa in cui riconoscersi. Il suo volto era stanco, più adulto di quanto dovesse essere a ventun anni. Tirò fuori un taccuino logoro e scrisse:
“Parto per cercare quello che non ho mai avuto: una famiglia. Una casa con le luci accese ad aspettarmi. Lo faccio per la nonna. Lo faccio per me. Anche se tremo, anche se non so dove sto andando. Non voglio solo sopravvivere. Voglio vivere, amare, avere qualcuno da proteggere. Se restavo, forse era più facile. Ma non più giusto.”
Richiuse il quaderno. Tirò su il cappuccio del giubbotto.
Il treno correva nel silenzio gelido dell’inverno, e con lui correvano le speranze di un ragazzo che aveva lasciato tutto per non perdere se stesso.
Non era un addio.
Era un inizio.
Forse incerto. Forse sbagliato.
Ma finalmente suo.

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