1. La sabbia e il cuore
La sabbia si sollevava in vortici lenti, sospinta da un vento caldo che pareva sussurrare storie antiche e mai scritte. Gaza si stendeva sotto un cielo pallido, scolorito dalla polvere e dalla paura. Il sole ardeva in alto, come un dio silenzioso che osservava senza intervenire.
Boruma avanzava con passo misurato, le scarpe impregnate di polvere, lo zaino saldo sulle spalle, lo sguardo aperto come una porta su un mondo fragile. Bambini dagli occhi enormi lo scrutavano tra le rovine, come a cercare in lui un segno di qualcosa che avesse ancora senso.
Boruma rispondeva con un sorriso, un gesto lieve della mano, qualche parola in un arabo stentato, imparato con il cuore più che con la grammatica. Era lì per portare qualcosa che non si misurava in garze o siringhe. Era lì per curare con la presenza. Con l’ascolto. Con il camminare accanto.
“Sono solo un uomo che corre sulla sabbia, ma ogni passo può essere un abbraccio.”
2. Le origini – Pane, libri e sarcasmo
Boruma era nato a Napoli, in una casa al terzo piano senza ascensore nel quartiere Materdei. Lì, tra il profumo del ragù della domenica e i panni stesi come bandiere di resistenza, aveva imparato l’arte della parola. Suo padre, impiegato delle poste, era un uomo schivo. Sua madre invece, insegnante di lettere, aveva un’anima da poetessa e una voce che sapeva cullare anche il dolore.
Sin da piccolo, Boruma si divertiva a imitare le voci dei vicini, a recitare davanti allo specchio battute rubate ai film di Totò e ai testi teatrali di Scarpetta. Il sarcasmo gli venne naturale, un’arma gentile per sopravvivere alla serietà del mondo. Ma fu la madre a donargli la chiave di tutto: i libri. Lo iniziò alla filosofia, ai miti greci, ai versi di Rilke e alla profondità delle domande senza risposta. Gli diceva sempre:
— “Il pensiero è come il mare, Borù: non puoi fermarlo. Ma puoi imparare a nuotarci dentro.”
A quindici anni, la vita fece irruzione con brutalità. La madre cominciò ad accusare dolori al seno. Il medico parlò di “neoplasia” e da lì il tempo si frantumò.
3. Il rumore che spaccò il tempo
Ogni sera, Boruma si sedeva sul letto accanto a lei. Le leggeva versi di Saffo e aforismi di Seneca. La madre lo ascoltava in silenzio, accarezzandogli i capelli rossi con mani sempre più leggere.
— “Non devi temere il dolore, amore mio. È solo un’altra forma di amore troppo forte per restare dentro.”
— “E dove lo metto tutto questo amore, se tu vai via?”
— “Mettilo negli altri. Curali come se fossi me.”
Quando morì, Napoli perse i colori. Boruma si trasferì dalla nonna materna, Concetta, una donna minuta, fiera, con i capelli raccolti in uno chignon eterno e un cuore che batteva al ritmo delle Ave Maria.
4. La nonna, il convitto e il teatro della vita
Concetta abitava a San Martino, con vista su un golfo che sembrava disegnato da Dio nei suoi giorni buoni. Boruma si iscrisse al liceo classico del Convitto Nazionale. Era un luogo solenne, con colonne bianche e un’eco costante nei corridoi. Si appassionò all’antica Grecia, all’etica aristotelica, alla tragedia attica e alle commedie di Aristofane, ma anche alle maschere di Pulcinella, che ritrovava nelle recite scolastiche.
Ogni sera, a casa, la nonna cucinava pasta e patate, guardava “Un Posto al Sole” e poi lo pregava di recitarle qualche scena comica.
— “Fammi ride, ‘nipò. Chillu Salemme me fa murì… ma tu pure ci sai fa’.”
E Boruma, con accento partenopeo marcato, imitava un politico confuso o un paziente napoletano ansioso. Per un attimo, anche la malinconia rideva.
5. Infermiere per amore
Avrebbe voluto insegnare, diventare professore. Ma Concetta cominciò a perdere lucidità, e lui decise di trovarsi un lavoro che gli permettesse di sostenerla. Scelse di diventare infermiere. Scelta pratica, ma non cinica. Anzi, scoprì che anche nella ferita poteva fiorire la bellezza.
Lavorò a Brescia, poi a Firenze, infine a Como. Ogni città gli lasciava addosso accenti, odori, volti. Ma il richiamo dell’altrove si faceva sempre più forte. Si iscrisse a un corso di formazione per paramedici internazionali e volò a New York.
6. Shelley
New York gli parve un sogno distorto. Un enorme teatro in cui tutti recitavano. Finché non incontrò Shelley. Era seduta in un caffè, tra il rumore dei clacson e le foglie gialle di Central Park. Leggeva Rumi, beveva tè verde, portava occhiali spessi e l’aria di chi aveva imparato a bastarsi.
— “Sei italiano?”
— “No, napoletano. Che è più grave.”
Rise. E fu l’inizio. Shelley, manager di una società finanziaria, fu rapita dalla leggerezza colta di quell’uomo: Boruma non cercava di sedurre, ma di comprendere. Le parlava dei miti di Orfeo, delle maratone nel silenzio dell’alba, del suo sogno di correre nel Sahara per sfidare i propri limiti. Le raccontava della nonna Concetta, della sua Napoli che piange e ride nello stesso respiro.
Boruma aprì per Shelley uno spazio sacro. Quando lei si ammalò, lui non vacillò. Le restò accanto per sei mesi. La lavava, la pettinava, le leggeva Mandel’štam, le portava il mare con le parole.
— “Sei la mia casa, Boruma.”
— “E tu sei il tetto quando piove.”
La notte in cui morì, gli lasciò un biglietto nella tasca del pigiama:
“Vai dove l’amore manca. E riempilo con quello che hai ancora dentro.”
7. Sorrento – La rinascita
Dopo il funerale, Boruma tornò in Italia. Si rifugiò a Sorrento, nel piccolo B&B dove andava da bambino. Ogni mattina correva tra i limoneti, il Vesuvio lontano e il mare che sembrava accarezzarlo.
Passeggiava tra i vicoli, mangiava il gelato al pistacchio in silenzio, parlava coi vecchi pescatori. Ogni sera, seduto alla Villa Comunale, scriveva pensieri, versi, sogni.
“Qui, dove il tempo sembra più gentile, ho capito che non posso più restare fermo.”
Gaza lo chiamava. E lui, con scarpe da corsa, zaino leggero, e cuore colmo, era pronto a partire. Per correre tra le rovine. Per dire con i gesti quello che le parole non bastano più a contenere.

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