Il cielo si era appena tinto di rame fuso, screziato da lembi di nuvole stracciate. L’aria sapeva di polvere e cordite, un respiro trattenuto da troppi giorni. Era il terzo bombardamento in una settimana. Le sirene, i passi affrettati, il pianto dei bambini — tutto ormai sembrava un triste ritornello, una nenia da cui nessuno riusciva a svegliarsi.
Eppure, in quella alba violentata, accadde l’incredibile.
Nel retro di un edificio semi-distrutto, fra pezzi di calcinacci e fumo ancora caldo, Boruma sentì un urlo. Ma non era il solito grido di dolore, né un richiamo disperato d’aiuto: era un urlo diverso. Ritmato. Antico. Un grido di vita.
Una donna, rannicchiata tra due pezzi di muro, con il volto sporco di sangue secco e sabbia, stava partorendo.
Non c’erano letti sterilizzati, né luci bianche, né strumenti di precisione. Solo mani nude, speranza e l’odore di guerra. Boruma si inginocchiò accanto a lei. Con voce calma e decisa, come quella volta in cui aveva assistito al parto nella corsia d’urgenza a Napoli, le sussurrò:
«Respira con me. Non sei sola. Ce la faremo.»
Il tempo si fermò. O forse impazzì del tutto.
Tra le rovine, nacque una bambina. Il suo primo vagito fu più forte di ogni esplosione. Più potente del rumore degli F-16 che ancora solcavano il cielo.
Boruma la prese fra le braccia e la alzò verso la luce, mentre le lacrime gli segnavano il viso. Non si capiva se fosse pioggia, polvere o pura meraviglia.
“Come può la vita farsi spazio in un campo di morte?”, pensò.
E in quell’istante, provò rabbia. Una rabbia profonda, sorda.
Perché una cosa tanto bella — così sacra — doveva nascere nell’odore del ferro bruciato, nell’indifferenza delle nazioni, nel cuore sventrato della Palestina?
Eppure, proprio lì, Boruma sentì anche una scintilla di speranza.
Una voce dentro gli sussurrava:
“Finché nasce una bambina, anche la guerra è condannata alla sconfitta.”
I giorni successivi furono pieni di sguardi. Alcuni riconoscenti, altri diffidenti. Ma Boruma sapeva come spezzare il silenzio della paura.
Come quella volta, a Como, quando aveva conosciuto La Tigna, La Cru e Napolina. Erano entrati nella sua vita come un tornado colorato, paillettes e ironia, ma con la forza di un Vangelo nuovo, scritto sull’amore universale.
Era un periodo difficile, eppure bastava una sera al “Masquenada Club” per dimenticare tutto: le delusioni, i dolori, la fatica di sentirsi diversi in un mondo standardizzato.
Lì dentro, tra una drag queen che cantava Mina e una scultura di palloncini a forma di pene realizzata da Napolina in preda all’estro, Boruma aveva imparato che l’amore vero non ha bisogno di definizioni.
Che non importa se ami un uomo, una donna, una fede o nessuno: importa solo quanto ami.
Ricordava ancora con un sorriso la volta in cui una signora anziana, sentendolo parlare con La Cru al bar, gli aveva sussurrato con aria cospiratoria:
«Ma secondo te… quella è un uomo o una donna?»
E lui, senza pensarci:
«È un arcobaleno, signora. Una cosa che lei forse non vedrà mai se resta chiusa nel grigio.»
Ridevano ancora di quella risposta.
Ridevano spesso, e in quelle risate c’era la vera libertà.
A Gaza, Boruma non raccontava mai direttamente quella parte della sua vita. Ma la portava dentro, come un talismano. Ogni volta che incontrava qualcuno vittima del pregiudizio — una donna accusata di amare troppo, un ragazzo cacciato perché ateo — lui vedeva il volto di La Tigna, che una volta gli disse:
«La gente ci odia non perché siamo diversi… ma perché siamo felici nonostante tutto.»
Il sole calava, tingendo la sabbia di colori aranciati. Boruma stava tornando verso il piccolo ambulatorio allestito sotto una tenda blu, quando lo sentì.
Un ringhio. Basso, profondo.
Si voltò di scatto. Tra due sacchi di sabbia, un grosso cane lo fissava. Era un Akita americano, pelo sporco, occhi intelligenti ma segnati.
Aveva la postura di chi ha combattuto troppo. Forse era stato lasciato indietro da qualche soldato, forse aveva vissuto nelle strade, tra esplosioni e fame.
Il cane si lanciò verso di lui.
Boruma non si mosse.
Invece, si inginocchiò, come aveva fatto con la donna incinta. Gli tese una mano.
Il cane rallentò. Si fermò.
Abbaiò.
Poi, inaspettatamente, gli leccò la mano, poi il viso.
Boruma rise.
«Ti chiamerò… Cru. Perché sei feroce fuori, ma dolce dentro.»
Da quel giorno, il cane non lo lasciò mai più.
Correva accanto a lui tra le rovine, lo seguiva tra i pazienti, abbaiava se sentiva odore di pericolo.
Era il suo angelo silenzioso, la sua guardia e il suo riflesso.
Boruma, la bambina nata sotto le bombe, e un cane randagio: un nuovo inizio tra le macerie del mondo.

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