Il cielo sopra Gaza, quel giorno, sembrava in attesa di qualcosa. Grigio, sospeso, come il respiro prima di una corsa.
Boruma camminava piano, appoggiandosi a un bastone di fortuna. Cru, l’Akita americano, lo seguiva a qualche passo, ferito ma fiero, come se la sofferenza fosse una medaglia invisibile.
Stava cercando una farmacia, o almeno un rifugio dove trovare una benda pulita, quando li vide: tre uomini. Apparvero tra le case sbriciolate come fantasmi senza rumore. Uno aveva gli occhi troppo chiari per essere del posto. L’altro masticava chewing gum. Il terzo, il più anziano, portava occhiali da sole nonostante la luce opaca.
In un attimo, tutto cambiò.
— Mani in alto. Non parlare. Segui le istruzioni. — disse l’uomo con l’accento americano.
Una mano lo spinse a terra. Un sacchetto nero sulla testa. Il mondo divenne buio e pieno di suoni ovattati. L’ultimo pensiero fu per Cru, il cane, che ringhiava lontano.
Boruma si svegliò su un lettino metallico. L’aria era ferma, odorava di plastica e sudore vecchio. Era in una stanza bianca, senza finestre, illuminata da un neon che tremolava come una candela esausta.
Aveva i polsi legati con delle fascette. Un soldato stava seduto di fronte a lui, impassibile.
— Nome?
— Boruma.
— Nazionalità?
— Italiana.
— Motivo della tua presenza a Gaza?
— Volontario. Aiuto nei campi profughi.
— Contatti con cellule palestinesi?
— No. Solo bambini. Donne. Feriti.
Il soldato non scrisse nulla. Si alzò e uscì.
I giorni si susseguirono uguali, privi di tempo. Ogni tanto portavano Boruma in una stanza diversa. Ogni volta, nuove domande, nuovi volti.
Una donna, giovane, gli parlò in italiano perfetto.
— Sei molto simile a un uomo ricercato. Stesso sguardo. Stessa barba.
— Quindi è questa la mia colpa? Il mio volto?
Non rispose. Gli porse una foto.
— Lo conosci?
— No.
— Sicuro?
— Sicuro come quando si ama e non si viene creduti.
Durante una delle poche ore d’aria, Boruma fu portato in una stanza comune. Seduti lungo il muro c’erano altri prigionieri.
Uno di loro lo osservò a lungo. Aveva occhi profondi e mani che tremavano leggermente. Si avvicinò con rispetto.
— Tu non sei di qui.
— Sono italiano.
— Medico?
— Infermiere. Volontario.
— Mi chiamo Ibrahim. Una volta insegnavo storia a Haifa. Ora insegno il silenzio.
I due si sedettero. Ibrahim mostrò a Boruma un foglietto stropicciato con una linea tracciata al centro.
— Questo è il tempo. E questi due punti siamo noi. Se dimentichiamo ciò che c’è in mezzo, siamo condannati a ripeterlo.
Boruma lo fissò.
— E voi lo sapete bene… il vostro popolo ha conosciuto l’orrore. Come potete infliggerlo ora ad altri?
— Perché la paura, quando non è curata, si trasforma in potere. E la religione…
— …dovrebbe renderci migliori.
— Invece ci giustifica. Tutti. Sempre.
Le parole si posarono su di loro come sabbia nel vento.
Dopo sette giorni, lo portarono in una stanza diversa. Più grande, con un tavolo e una bottiglia d’acqua.
Entrò un uomo che Boruma non aveva mai visto. Aveva l’aria stanca di chi dorme poco e vive troppo.
— Signor Boruma.
— Sì?
— Ci scusiamo. Un errore di identificazione.
— Per colpa di una barba?
— Per colpa della paura. È sempre lei a decidere.
Silenzio.
— Il cane è stato trovato. Ha una zampa ferita, ma è vivo. Lo riconsegneremo.
— E io?
— Sarà medicato. Curato. Poi libero.
Boruma non rispose. Ma nel suo sguardo si accese una scintilla antica: la fiducia, quella che si dà non perché l’altro la merita, ma perché tu scegli di non diventare come lui.
Tel Aviv
Era tardo pomeriggio quando Boruma uscì dal piccolo ospedale militare. Indossava abiti civili, un paio di scarpe comode e portava Cru al guinzaglio. Il cane zoppicava ma camminava con fierezza.
Lungo il lungomare, il sole si tuffava nel Mediterraneo come un attore stanco alla fine della recita. I colori erano arancio, porpora e oro.
Un uomo lo fermò. Aveva un banchetto con libri usati.
— Italiano? — chiese con un sorriso.
— Sì.
— Guarda questo — e gli porse una copia consunta de “Il giorno della civetta”.
— Sciascia… — sussurrò Boruma — anche lui parlava di verità negate.
Passeggiò ancora. Comprò una pita con hummus, accarezzò il cane, ascoltò una canzone suonata con un oud da un giovane palestinese che cantava in ebraico.
Il mondo, per un attimo, sembrò possibile.
Poi accadde.
Davanti a un bar, seduto con un uomo in abito scuro, vide un volto che lo paralizzò.
Era lui. Il fratello di Shelley.
Lo credeva morto. Invece era lì, vivo, e parlava con uno degli agenti del campo.
Boruma restò immobile, il cuore in subbuglio.
Cru si voltò, lo guardò e si sedette, come se avesse capito tutto.
— Shelley… — sussurrò Boruma. — Cosa mi hai nascosto?

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