Shelley non aveva lasciato solo disegni e taccuini. Aveva lasciato una traccia. Un seme.
Quel progetto educativo segreto, nato tra le crepe della guerra e cresciuto tra i muretti sgretolati della Striscia, era ancora vivo. Nonostante tutto. Joshua gli aveva affidato quella responsabilità con occhi lucidi e mani tremanti: “Ci serve qualcuno che non insegni solo lettere, ma compassione. Qualcuno che sappia parlare anche quando tace.”
Boruma accettò senza parole. Perché a volte il dolore non si cura, si tramanda. E ogni bambino salvato era una pagina scritta al posto di una bomba caduta.
La scuola non aveva banchi. Solo tappeti consunti, pareti crepate e finestre senza vetri. Ma ogni mattina, al sorgere del sole, il cortile si riempiva di voci, risa e occhi assetati di storie.
Boruma sedeva in mezzo a loro, con Cru al fianco. Il cane, che una volta ringhiava a ogni rumore, ora si lasciava toccare, strattonare, addirittura travestire con corone di carta e sciarpe logore. I bambini ridevano quando gli mettevano al collo un cartello scritto in arabo: كلب السلام – “Il cane della pace”.
Non avevano tablet, né matite colorate. Giocavano con sassi lisci, con le ombre, con le storie raccontate a voce alta. Una bambina, Hiba, danzava come il vento anche se aveva perso una gamba. Un ragazzino, Nadim, imitava Cru abbaiando e correva in tondo come se il dolore non lo avesse mai toccato.
Boruma li osservava e si domandava come potesse esistere così tanta luce in mezzo a tanto buio.
“Sono pieni di niente,” pensava. “Eppure danno tutto.”
Una volta, in Occidente, aveva visto un bambino piangere perché non riusciva a connettersi al Wi-Fi. Qui, invece, un pezzo di gesso spezzato diventava una bacchetta magica. Un tappo di bottiglia, la porta verso un regno immaginario.
Cru sembrava capirli meglio di lui. Si accucciava vicino a chi stava in disparte. Si lasciava accarezzare dalle mani callose di quei piccoli adulti. A volte abbaiava solo per farli ridere, come se sapesse che il riso è un vaccino contro la paura.
Quella sera, seduto sotto una tenda bucata che usava come rifugio, Boruma si perse nei pensieri. Il vento portava odore di sabbia e carne cotta su pietre roventi. Chiuse gli occhi e fu di nuovo altrove. In un tempo diverso.
Aveva diciassette anni.
Sua madre era morta da pochi mesi. E lui, che non aveva mai pianto, aveva iniziato a mangiare come se ogni boccone potesse tappare la voragine che sentiva dentro.
Non era fame, era assenza.
Ogni notte svuotava la dispensa, poi si chiudeva in bagno. Nessuno lo sapeva. Nessuno doveva sapere. Le mani si aggrappavano al lavandino, la gola bruciava. Era l’unico momento in cui riusciva a sentire qualcosa. Il dolore era più sopportabile del vuoto.
Un giorno, inciampò nei lacci delle scarpe. Letteralmente. Stava cercando qualcosa nella soffitta quando trovò le vecchie sneakers da corsa della madre. Le infilò, quasi per gioco. Uscì di casa e iniziò a correre.
All’inizio solo poche centinaia di metri. Poi di più. Sempre di più.
“Il dolore diventava respiro. Il vuoto diventava ritmo. Ogni passo era una parola che non avevo mai detto.”
La bulimia non scomparve subito. Ma ogni corsa fu una confessione silenziosa. Ogni chilometro una carezza mancata, un grido trattenuto, una parte di sé restituita al mondo.
Un bambino gli si avvicinò con un piccolo disegno fatto con carbone su cartone.
«Questo sei tu,» disse. «E questo è il tuo cane. E questo è il sole che ci hai portato.»
Boruma sorrise. Il disegno era rozzo, ma conteneva più verità di mille ritratti.
«Come ti chiami?» chiese.
«Fares,» rispose il bambino. «Significa cavaliere.»
Boruma pensò a quanto il nome fosse inadeguato e perfetto allo stesso tempo. Quel piccolo, con le ginocchia sbucciate e lo sguardo serio, era davvero un cavaliere. Uno che combatteva la guerra più dura: crescere senza infanzia.
Quella notte, scrisse sul suo taccuino una frase:
“L’amore è l’unica forma di giustizia che non chiede vendetta. È il seme che cresce anche nel cemento, anche tra le rovine, anche in chi ha perso tutto. Per questo va insegnato. Va mostrato. Va donato, come acqua a chi ha sete.”
E guardando i bambini dormire, uno accanto all’altro come cuccioli sotto le stelle, capì che non c’era nulla da salvare. C’era solo da amare.
Il giorno dopo, durante una delle lezioni, mentre insegnava ai bambini a scrivere le prime lettere dell’alfabeto su vecchi pezzi di cartone, una delle piccole allieve — Malak — sollevò la mano con timidezza.
«Maestro Boruma,» disse, «perché c’è un uomo armato sul tetto?»
Si voltò di scatto. Cru si era già alzato, ringhiando sommessamente. L’aria cambiò improvvisamente temperatura. Sul tetto della scuola, tra le lastre di lamiera, si intravedeva una sagoma immobile.
Non era un soldato qualunque.
Era uno dei tre uomini che lo avevano interrogato mesi prima, nel campo di prigionia. Lo riconobbe dagli occhi. Lo stesso sguardo duro e svuotato. Ma ora sembrava… in attesa.
Boruma si alzò lentamente. Sentì un nodo serrargli la gola.
Il passato era tornato. Ma stavolta, sarebbe stato lui a dettare le regole. Non con la paura. Ma con le parole.
Con l’amore, e con Cru al suo fianco.

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