Dopo aver lasciato Gerusalemme, Boruma si voltò a guardare Amir e Leila, i due giovani palestinesi che, con coraggio e determinazione, vegliavano sulla biblioteca nascosta. Le loro mani, ruvide ma gentili, stringevano antichi volumi e pergamene come fossero reliquie sacre.
«La vostra presenza è più preziosa di quanto immaginiate» disse Boruma, con voce calda ma ferma. «Proteggete ciò che abbiamo trovato, perché è la luce nel buio.»
Amir rispose con un sorriso stanco ma fiero.
«Non vi deluderemo. Non mentre ci sarà fiato nei nostri polmoni.»
Il gruppo si avviò verso Betania, e con ogni passo nel deserto il silenzio si faceva più denso, come se la terra stessa ascoltasse i loro pensieri.
Joshua, camminando accanto a Boruma, parlò a bassa voce:
«Sento la storia avvolgerci come un mantello, ma anche il peso delle aspettative… Non so se siamo pronti per quello che ci aspetta.»
Suor Lea, con gli occhi pieni di compassione, rispose:
«Il coraggio non è l’assenza di paura, ma la decisione che qualcosa è più importante della paura.»
Ezra si fermò, poggiando una mano sulla roccia calda.
«In questi luoghi, la fede di molti ha lasciato tracce invisibili agli occhi distratti. Dobbiamo imparare a leggere non solo le parole, ma il silenzio che le circonda.»
Hafiz, con un sorriso enigmatico, aggiunse:
«L’amore è la lingua che supera ogni barriera, ma è anche la sfida più difficile da accettare.»
Il sole si alzava lentamente, i raggi che accarezzavano le dune con toni di oro e ambra. Il vento soffiava leggero, portando con sé il profumo di mirra e di terra arsa. Il deserto non era solo un paesaggio, ma un vasto tempio naturale, pieno di segreti e di memoria.
Boruma sentiva il peso della sua missione più forte che mai, il respiro che si faceva corto, il cuore stretto tra speranza e timore.
Improvvisamente, un rombo spezzò il silenzio: la jeep nera apparve all’orizzonte, silenziosa e minacciosa. Il volto che guidava era lo stesso con la cicatrice a virgola, segnato ma determinato.
«Non può essere,» mormorò Boruma, la voce quasi rotta.
L’uomo scese lentamente, gli occhi pieni di rimorso e sfida.
«Hai fatto molte scelte, Boruma. Ma questa strada ti allontana da ciò che ami davvero.»
Boruma serrò i pugni, lo sguardo fermo:
«L’amore è la mia via, anche se è una strada di spine.»
Il gruppo si strinse, consapevole che la vera prova era appena iniziata.
La guida armena Arakel li attendeva al santuario, un luogo nascosto tra le rocce, dove il tempo sembrava sospeso. Il piccolo edificio, anticamente cappella e rifugio, portava tracce di epoche diverse: graffiti cristiani, iscrizioni ebraiche, segni di antichi riti.
Davanti all’affresco sbiadito, un occhio sereno li osservava da secoli, un simbolo di amore e unità che sfidava le divisioni umane.
Boruma si avvicinò, la pelle percorsa da brividi.
«Questo è il vero Segno. Non una guerra, non una bandiera. Ma un invito a guardare oltre.»
Joshua posò una mano sulla spalla di Boruma:
«Dobbiamo portare questa luce nel mondo, ma non sarà facile.»
Suor Lea, con voce pacata ma ferma, disse:
«La fede ci guiderà, anche nell’oscurità.»
Ezra aggiunse:
«E la saggezza ci proteggerà dalle tentazioni della paura e dell’odio.»
Hafiz concluse con un sorriso:
«L’amore è l’unica arma che può abbattere i muri, ma dobbiamo saperla usare con saggezza.»
Il vento portava con sé un sussurro antico, quasi un canto. Boruma chiuse gli occhi, respirò profondamente e sentì dentro di sé la forza di quella verità eterna: l’amore universale è la chiave per una società evoluta.
Ma un’ombra si muoveva all’esterno, invisibile ma presente, pronta a sfidare quella luce.

Lascia un commento