Il tramonto incendiava il cielo del deserto, tingendo la sabbia di rosso e d’oro. Boruma, ancora ansimante dopo la corsa, sentiva le gambe pulsare come corde di un antico strumento. Ogni muscolo bruciava, ma era il cuore a correre più forte, come se sapesse che la prova non era conclusa.
Davanti a lui i Custodi tacevano, immobili, con lo sguardo rivolto verso quell’ombra che si allungava sull’orizzonte. Nessuno parlava, eppure Boruma percepiva che ognuno di loro ne riconosceva il presagio.
«Chi è?» domandò con voce roca.
Il Custode più anziano serrò gli occhi, come a scrutare oltre il visibile.
«Non è un uomo, né un animale. È la somma delle paure che hai portato con te fino a qui. L’ombra appare a chi ha superato il deserto del corpo, perché ora deve attraversare il deserto dell’anima.»
Boruma rabbrividì. Non era sudore, non era stanchezza: era qualcosa di più profondo, un freddo che lo mordeva dall’interno.
Il Custode più giovane gli fece cenno di avvicinarsi al pozzo. Era antico, scavato nella roccia, ormai prosciugato. Le pareti erano incise di simboli che ricordavano serpenti e fiori intrecciati.
«Questo è il Pozzo del Silenzio» spiegò. «Chi vi si affaccia non vede acqua, ma il proprio riflesso trasformato dall’ombra. È qui che scoprirai se la tua corsa è stata sufficiente a prepararti.»
Boruma esitò. Dentro di sé rivedeva il volto di Shelley, il sorriso di sua madre, le risate dei bambini che poco prima lo avevano salutato. Erano immagini di luce, eppure l’ombra sembrava pronta a strappargliele.
Si chinò lentamente e guardò nel pozzo. All’inizio vide solo sabbia e oscurità. Poi, come un riverbero, emerse un volto: il suo. Ma non era lo stesso. Era invecchiato, indurito dall’odio, con occhi senza speranza.
La voce dell’ombra sibilò dal fondo:
«Tu corri per gli altri, ma dentro di te c’è ancora la fuga. Fuggivi da ragazzo, fuggivi dal dolore, fuggivi dalla morte. La tua corsa non è amore: è paura travestita.»
Boruma indietreggiò, colpito. Quelle parole avevano trafitto un punto che credeva sepolto. Ricordò le notti in cui correva senza meta per le strade di Sorrento, sudato e disperato, cercando di non piangere la madre perduta. Ricordò le giornate dopo la morte di Shelley, quando la corsa era l’unico modo per non cadere a terra.
«No…» mormorò. «Non corro per fuggire.»
Ma la sua voce tremava.
Il Custode più anziano posò una mano sulla sua spalla.
«Non combattere l’ombra negandola. Guardala, ascoltala. Solo riconoscendo ciò che sei stato, potrai diventare ciò che devi essere.»
Boruma si chinò di nuovo. Questa volta non distolse lo sguardo. L’ombra dentro il pozzo sorrideva di un sorriso crudele, ma i suoi occhi erano gli stessi di un giovane ragazzo ferito. E in quel momento Boruma comprese: l’ombra non era un nemico esterno, ma la parte di sé che non aveva mai osato abbracciare.
Il vento soffiò più forte, sollevando sabbia attorno al pozzo.
Boruma serrò i pugni, il cuore gli batteva come un tamburo.
«Se davvero sei parte di me, allora correrai con me. Non ti rinnegherò più.»
Il riflesso si incrinò, come un vetro che si spezza. Un boato sordo attraversò il deserto, e l’ombra all’orizzonte parve muoversi, avvicinarsi, prendere forma.
Il Custode più giovane mormorò:
«Ha accettato la corsa interiore. Ma l’ombra non si lascia domare: ora vorrà metterlo alla prova.»
Boruma alzò lo sguardo verso il cielo ormai scuro.
Il deserto taceva.
La vera sfida stava iniziando.

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