CAPITOLO XVIII– LA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA

Il vento, quella notte, sembrava portare con sé echi lontani, voci spezzate che si confondevano col battito del cuore di Boruma. Non c’erano spari, né urla. Solo un silenzio denso, quasi irreale, che gli si posava addosso come un mantello.

Era il silenzio che precede i grandi eventi, quello che ti costringe a guardarti dentro, a fare i conti con te stesso.

Seduto su una pietra levigata dal tempo, accarezzava la testa di Cru, l’Akita fedele che non lo lasciava mai solo. I suoi occhi canini erano due fessure vigili, attente, come se sapessero che qualcosa stava per accadere.

Boruma respirava profondamente, lasciando che l’aria del deserto gli riempisse i polmoni. Ogni respiro era un atto di fede, un dialogo silenzioso con Dio.

«Se l’amore che porto nel cuore viene da Te,» pensò, «allora nulla potrà distruggermi. Ma se l’odio ha seminato radici dentro di me, Ti chiedo di strapparle prima che sia troppo tardi.»

Le immagini riaffioravano come ondate: Shelley che sorrideva tra le luci di una sera estiva, i bambini di Gaza che giocavano con Cru, il fratello di lei apparso come un fantasma vivo, le pergamene antiche che parlavano di un amore capace di unire tutte le religioni.

Era come se il destino avesse intrecciato i fili di ogni memoria per condurlo proprio lì, in quella notte sospesa.

Boruma prese il suo taccuino, quello consunto che portava ovunque, e cominciò a scrivere parole che non erano semplici appunti, ma preghiere:

“Non voglio combattere con la spada, ma con il cuore. Non voglio vincere con la forza, ma con l’amore. Se cadrò, fa’ che il mio sangue irrighi la speranza e non la vendetta. Fa’ che ogni passo sia luce e non ombra.”

Il silenzio fu rotto da un lieve bisbiglio:

— Boruma… —

Era la voce di Cru? O solo l’eco della sua coscienza? Non seppe dirlo. Ma sentì chiaramente quelle sillabe vibrare dentro di sé.

Si alzò lentamente. Il cielo sopra di lui era trapunto di stelle, così fitte che sembravano occhi vigili. Ogni stella era un’anima che lo osservava. Forse Shelley era lì, forse sua madre, forse i bambini che non ce l’avevano fatta. Tutti insieme a spingerlo verso quel bene superiore che tanto cercava.

Un brivido gli corse lungo la schiena. Non era paura, era consapevolezza: lo scontro stava per arrivare, ma prima di affrontarlo doveva vincere l’ultima battaglia, quella più dura — la guerra dentro se stesso.

“Amare senza condizioni,” si ripeté, “questo è l’unico modo per restare uomo anche nel cuore dell’inferno.”

Cru si alzò, fiutando l’aria. Boruma lo seguì con lo sguardo e in quell’istante comprese che il silenzio si stava incrinando.

La tempesta era vicina.

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