CAPITOLO XX LA FRATTURA DELLA LUCE

La notte calava come una coperta irregolare, fatta di ombre spezzate e luci tremolanti di fuochi lontani. Non c’era il silenzio assoluto, ma un brusio diffuso: il ronzio dei generatori, il pianto sommesso di un neonato, il battere metallico di una lamiera che il vento muoveva a intervalli.

L’aria odorava di ferro e cenere, come se il mondo intero fosse stato appena estratto da una fornace.

Boruma osservava quel mosaico disordinato che chiamavano villaggio, e per un istante pensò che sembrasse una tela incompiuta: un pittore impaziente aveva tracciato i contorni, ma non aveva mai avuto il tempo di dare i colori.

Cru al suo fianco non abbaiava, non ringhiava: fissava l’oscurità con la calma di chi sa leggere ciò che sfugge all’occhio umano.

Shelley, seduta sul muretto di Sorrento, il mare dietro di lei come un drappo azzurro in festa. Gli occhi chiari, accesi dal vento salmastro.

«Boruma», gli aveva detto con quella voce che sapeva accarezzare e ferire nello stesso tempo, «il nostro amore non è solo nostro. È un varco. Attraverso di noi passa qualcosa che va oltre la carne, oltre la gioia e oltre la sofferenza. È un ponte che unisce mondi che non vogliono unirsi.»

Allora lui aveva sorriso, convinto che fossero parole dettate dal romanticismo. Ma adesso, nel buio della Striscia, quelle parole tornavano come un presagio. Non erano mai state un’esagerazione: Shelley sapeva.

Forse aveva sempre saputo.

Un rumore lo distolse dal ricordo: passi. Lenti, controllati, carichi di una presenza che non si annunciava ma nemmeno si nascondeva.

Dal varco tra due muri crollati comparve una figura che conosceva troppo bene: l’uomo del campo di prigionia. Il carceriere che lo aveva interrogato, colui che un tempo aveva incarnato la crudeltà dell’oppressione e che ora si presentava con un volto più segnato, più umano, ma non meno ambiguo.

«Non sei sorpreso di vedermi, Boruma», disse in un ebraico smorzato, ma comprensibile.

Boruma strinse la mascella.

«Sorprendersi significa non aver previsto il dolore. Io ormai lo attendo sempre. Dimmi piuttosto perché sei qui. Nemico o alleato?»

L’uomo sorrise, un sorriso che non scioglieva i dubbi ma li moltiplicava.

«Dipende da cosa sceglierai di diventare.»

Boruma rimase in silenzio, mentre Cru ringhiava piano, quasi per coprire quella frase che suonava come una condanna.

Dentro di sé sapeva che il tempo delle scelte stava arrivando. Continuare a proteggere i bambini, a custodire il sogno di Shelley, significava sfidare poteri troppo grandi. Ma cedere a compromessi, chiudere un occhio, significava tradire se stesso e la memoria della donna che aveva amato più della vita.

Si ricordò di un frammento di Platone, letto da ragazzo: la luce del bene è abbagliante, ma pochi hanno il coraggio di restare negli occhi di fronte a essa.

Era quello il suo bivio: restare cieco per codardia, o soffrire per guardare fino in fondo.

«Cosa volete da me?» chiese Boruma con tono fermo.

«Non da te. Dai bambini.» rispose l’uomo. «Sai che il loro futuro è la vera arma. Se li educhi alla speranza, alla convivenza, spezzi la catena dell’odio. E questo, Boruma, non tutti lo vogliono.»

«Allora è vero», mormorò lui. «Non è la guerra di oggi che vi interessa, ma quella che verrà.»

L’uomo abbassò lo sguardo. «Ogni impero teme più una carezza che una bomba. E tu, con il tuo sogno ingenuo, stai diventando pericoloso.»

Boruma si morse le labbra. Pericoloso. Lui, che si sentiva solo un uomo innamorato della vita.

Un boato interruppe il dialogo. La terra tremò, le mura crollarono parzialmente, un odore di polvere e sangue invase l’aria.

Le urla dei bambini riempirono la notte. Cru scattò verso di loro, abbaiando disperato, guidandoli verso un riparo.

Boruma corse tra le macerie, cercando di sollevare i piccoli corpi spaventati, mentre l’eco dell’esplosione rimbombava ancora dentro il suo petto.

Fu allora che lo vide.

Tra il fumo e i lampi delle fiamme, una figura emerse. Non un soldato, non un nemico. Un volto che il cuore di Boruma riconobbe prima ancora degli occhi.

La gola gli si strinse. Il respiro mancò.

«No… non è possibile.»

Davanti a lui, con passo incerto ma vivo, stava una persona che credeva morta per sempre.

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