L’alba spaccava il cielo in due: da una parte il rosa caldo del giorno nuovo, dall’altra il blu scuro che ancora tratteneva i sogni della notte. Boruma guardava l’Isola del Faraone stagliarsi netta davanti a sé, la fortezza di Salah al-Din che emergeva dalle acque come un castello sospeso tra mito e realtà.
Le scarpette della nonna scricchiolavano sulla roccia umida. Ogni passo era un dialogo silenzioso con Concetta: “Non sei solo. Ricorda: corri, ma non dimenticare di restare.” Cru lo precedeva di pochi metri, il pelo bagnato che scintillava come seta scura, le orecchie tese a captare i segreti del vento.
La porta della fortezza era socchiusa. Nessun guardiano, nessun rumore. Solo il cigolio delle cerniere che sembrava un lamento antico. Boruma si fermò, respirò a fondo, attivò la sua formula di sempre: corpo leggero, mente limpida, cuore caldo. Sentì il battito rallentare e, in quell’attimo, il mondo esterno sparì. Rimase solo il presente, limpido come una lama.
«Andiamo, Cru,» mormorò. «Non corriamo per fuggire. Corriamo per entrare.»
E varcò la soglia.
Le mura del silenzio
La fortezza lo accolse come una cattedrale senza preti. Le pietre, levigate dal vento e dal sale, trasudavano secoli di assedi, voci e preghiere. Ogni arco, ogni feritoia, sembrava un occhio che osservava.
Boruma avanzò lentamente. Passò sotto corridoi angusti, scalini consunti, cortili invasi da cespugli che erano cresciuti senza permesso. L’aria odorava di ferro e incenso, come se i secoli avessero lasciato reliquie invisibili.
In un angolo, scorse un mosaico quasi intatto: un intreccio di rose e cactus, il simbolo dei Custodi. Non era lì per caso: qualcuno, prima di lui, aveva già collegato quel luogo al destino che lo guidava.
Cru si fermò davanti a una scala che saliva verso la torre più alta. Alzò il muso, poi abbaiò piano. Sembrava un invito.
La salita
Ogni gradino era stretto, scivoloso. Boruma appoggiava la mano al muro, sentendo la pietra ruvida graffiargli il palmo. La salita era lenta, quasi un pellegrinaggio.
Mentre saliva, gli tornavano immagini lontane. I Natali da solo, riempiti solo dai ricordi dell’infanzia. Le corse solitarie a Como, quando ogni passo era un tentativo di non affondare nella nostalgia. Oggetti comuni — un libro consumato, una sciarpa, un paio di scarpe — che diventavano portali di memoria. Oggi erano le scarpette della nonna a trasformare la fatica in forza.
«Nonna,» pensò, «questi gradini li faccio anche per te.»
La cima
Arrivò in cima col respiro affannato, ma gli occhi pieni di luce. La piattaforma della torre si apriva sul Golfo di Aqaba, un mare calmo che rifletteva il sole nascente come un immenso specchio d’oro.
Sul pavimento, intarsiato nel granito, c’era un mosaico circolare. Raffigurava tre mani intrecciate: una con segni ebraici, una con lettere greche, una con calligrafia araba. Attorno, un’iscrizione in latino:
“Chi cerca la luce deve prima ascoltare il mare.”
Boruma si inginocchiò, le dita che sfioravano le tessere fredde. Il mosaico non era solo un simbolo: era un invito, forse un enigma. Il Sigillo del Giardino non poteva essere lontano.
Un tonfo sordo risuonò da sotto i suoi piedi. Una vibrazione breve, come un battito proveniente dal cuore della terra. Cru sollevò il muso, le orecchie dritte, un ringhio sommesso in gola.
Boruma si alzò lentamente. Il vento gli scompigliava i capelli ramati e portava con sé odori diversi: sale, ferro, resina, polvere. Odori che sapevano di mare e di deserto, di battaglie e di memorie.
Si sedette sul bordo della torre, le gambe penzoloni sul vuoto. Lì, sospeso tra cielo e acqua, lasciò che il training autogeno lo portasse oltre: corpo pesante, fronte fresca, cuore caldo. Vide la nonna, Shelley, i bambini di Gaza. Tutti lo accompagnavano.
«Non corro per me,» sussurrò. «Corro perché il mondo non resti orfano.»
Cru abbaiò una volta, come un sigillo sonoro.
Il tonfo dal basso si ripeté, più netto. Il Sigillo del Giardino lo chiamava dalle viscere della fortezza. Ma non era ancora il momento. Prima bisognava ascoltare, respirare, accettare la luce.
«Domani,» disse a voce bassa, «scenderemo dove il granito parla. Oggi restiamo qui, a respirare la luce.»
Il sole saliva, alto e implacabile. La fortezza, avvolta nel suo silenzio millenario, sembrava osservare l’uomo e il cane con complicità.
Il mondo fuori attendeva risposte, ma per quella mattina bastava restare sospesi tra cielo e mare, con la certezza che il vero viaggio non era ancora iniziato.

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