CAPITOLO XXVIII — Il Coraggio del Vaso di Terracotta

Il corridoio sotterraneo odorava di umidità e pietra antica. Le torce fissate alle pareti disegnavano ombre tremolanti che sembravano allungarsi come artigli, pronte a ghermire. Cru avanzava accanto a Boruma, il respiro regolare, le orecchie tese: ogni passo era un avvertimento silenzioso.

Boruma, però, non tremava. Sentiva la tensione avvolgerlo come una seconda pelle, ma non era paura: era consapevolezza. Quell’attimo, in cui la vita poteva capovolgersi, gli sembrava quasi familiare.

Gli tornò in mente un frammento dei Promessi Sposi che da ragazzo lo aveva ferito come una lama: «un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro». All’epoca si era sentito esattamente così: fragile, indifeso, costretto a urtare contro la cattiveria gratuita dei bulli che lo prendevano di mira alle medie.

Allora era timido, gentile, educato ai valori della famiglia. Non aveva cattiveria dentro, e il mondo sembrava non perdonare chi non mostrava i denti. Poi, però, arrivò la rivelazione: la dignità non poteva essere calpestata. Smise di essere vaso di terracotta soltanto quando imparò a usare l’ironia, il sarcasmo come scudo. Scoprì Gandhi, la forza della non violenza, e capì che un sorriso intelligente poteva mettere in ginocchio più di un pugno.

Ripensò a sua madre, al suo calvario lento e silenzioso: quella morte lo aveva cambiato. Ripensò alla nonna Concetta, che negli ultimi mesi non lo riconosceva più, prigioniera dell’Alzheimer, e lo vedeva solo come un bambino coi boccoli ramati. Ogni ferita, ogni perdita, lo aveva addestrato meglio di qualsiasi arma.

Per questo adesso, nei sotterranei del faraone, mentre i passi della casta echeggiavano sempre più vicini, Boruma non conosceva paura. La cattiveria umana l’aveva vista da vicino: al letto dei malati, tra colleghi che tentavano di umiliarlo con mobbing, nelle stanze chiuse delle scuole dove aveva imparato a difendersi con l’intelligenza. E ogni volta, anziché piegarsi, si era fatto più saldo.

Cru gli sfiorò la mano con il muso. Boruma sorrise. «Non temere, vecchio amico. I leoni non ringhiano sempre… a volte ridono.»

Si fermò un istante, respirò a fondo. La sua voce interiore gli parlava chiara: il coraggio non nasce dalla forza, ma dalla ferita che hai saputo trasformare in luce.

Quando le prime sagome dei membri della casta apparvero in fondo al corridoio, nere come ombre scolpite, Boruma fece un passo avanti. Non come un guerriero, ma come un uomo che non accetta più la cattiveria come destino.

Tre figure emersero dalla penombra. Il loro silenzio pesava più di qualunque minaccia. Uno di loro parlò, con voce fredda e distaccata:

«Boruma, tu non appartieni a questo luogo. Il Sigillo non deve essere trovato. Non sei pronto, il mondo non è pronto.»

Boruma inclinò la testa, un lampo ironico negli occhi. «Strano. Da quando sono i carcerieri a decidere quando i prigionieri sono pronti a uscire?»

L’uomo non si scompose. «Non capisci. Il potere del Sigillo non è un dono, è una condanna.»

Boruma rise piano, un suono che rimbalzò sulle pietre. «Eppure il vostro zelo nel proteggerlo somiglia molto a una paura personale, non a una tutela universale.»

Cru si mise davanti a lui, le zampe ben piantate, pronto a difendere. Ma Boruma lo accarezzò dietro l’orecchio, come a dire: calma, stavolta è il turno delle parole.

«Ho imparato che la cattiveria gratuita nasce sempre dalla stessa radice,» continuò Boruma. «La paura di perdere un potere che non si merita. Io non ho nulla da perdere, perché tutto quello che amavo — mia madre, mia nonna, Shelley — mi è stato già strappato via. Non mi spaventate. Voi potete solo aggiungere ombra, ma io ho imparato a camminare nel buio senza inciampare.»

Il secondo uomo fece un passo avanti, la voce tagliente: «Sei convinto che il coraggio nasca dalle tue ferite. Ma ogni cicatrice è anche una catena. Noi useremo quelle catene per trascinarti giù.»

Boruma non arretrò. I suoi occhi erano fermi, limpidi: «Ogni catena che ho portato mi ha insegnato a riconoscere i prigionieri veri. Voi siete quelli incatenati, non io.»

Il silenzio cadde come una lama. Le torce tremarono, quasi scosse da un vento improvviso. Le figure della casta si mossero appena, ma fu sufficiente perché Boruma percepisse che lo scontro non sarebbe stato solo di parole.

Cru abbaiò una sola volta, potente, come un tuono che anticipa la tempesta.

E Boruma, stringendo i lacci delle scarpette della nonna, capì che quella corsa non era stata altro che un lungo allenamento per quel momento: correre non per fuggire, ma per restare saldo, uomo tra uomini, luce dentro le ombre.

La battaglia dei sotterranei stava per cominciare.

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