Il sotterraneo odorava di pietra bagnata e di ferro antico. Boruma sentiva il respiro del tempo scorrere sulle pareti, gocce che cadevano ritmiche come un orologio invisibile. Cru era accanto a lui, pelo irto, occhi tesi nel buio.
Un fruscio. Poi un passo.
Dal fondo della galleria si mossero tre figure, nere come ombre staccatesi dal muro. Nessun rumore di armi, solo il fruscio delle vesti e lo sguardo che bruciava come coltelli nascosti.
«Boruma,» disse una voce cavernosa, «non sei tu che ci hai cercato. Siamo stati noi a lasciarti arrivare fin qui.»
Boruma piegò il capo di lato, con quel sarcasmo che teneva in tasca come un’arma.
«Allora grazie dell’invito. Se avessi saputo, portavo del vino.»
Un mormorio passò tra i tre, ma nessuno rise.
«Non capisci, uomo del cuore,» disse il più alto. «Il Sigillo non è per mani come le tue. È il cuore del potere, e chi lo tocca decide il destino di intere generazioni.»
Boruma sospirò. «Evidentemente avete bisogno di una manicure, perché a giudicare dalle vostre mani il mondo è già ridotto a macerie.»
Cru abbaiò una volta, secco. Un segnale: il nemico era pronto a colpire.
E colpirono.
Un lampo di metallo squarciò il buio, un pugnale che scintillava alla luce di una torcia tremolante. Boruma si spostò d’istinto, ricordando gli anni di corsa: passo laterale, corpo leggero, come schivare un ostacolo in piena maratona. Cru balzò addosso al secondo uomo, abbattendolo contro il muro con un ringhio feroce.
La lotta non era elegante: era cruda, scarna, fatta di respiri corti e sassi che rotolavano. Boruma afferrò il braccio di un aggressore e lo piegò contro la parete, sfruttando più l’effetto leva che la forza. «Non sono mai stato bravo nei combattimenti,» sibilò, «ma ho imparato una cosa: il dolore ha più paura di me che io di lui.»
Il terzo uomo, quello più alto, rimase immobile. Non mosse un dito. Solo quando Boruma lo fissò negli occhi, riconobbe un dettaglio che gli fece gelare il sangue: quella cicatrice a forma di virgola accanto all’occhio.
Era lui. L’uomo che li seguiva da settimane.
«Non cercare di combattere,» disse l’uomo. «Non è qui che si vince. È dentro di te che devi cedere.»
Boruma scosse il capo, respirando forte. «Se pensi che un vaso di terracotta possa ancora farsi in mille pezzi tra i vostri ferri… vi sbagliate. Io ho già imparato a ridere del ferro.»
Una pausa. Silenzio assoluto.
Poi accadde: il soffitto tremò, come scosso da un boato lontano. La torcia si spense, lasciando tutto in oscurità. E in quell’oscurità Boruma udì qualcosa che non avrebbe mai creduto possibile: una voce di donna, familiare, che mormorava parole spezzate.
«Boruma…»
Il cuore gli saltò in gola. Shelley?
No, impossibile. Eppure la voce era la sua.
Gli uomini della Casta indietreggiarono, come se anche loro avessero udito. Cru abbaiò forte, un ululato che riempì il sotterraneo.
L’uomo con la cicatrice si fece avanti, la voce più bassa di un sussurro:
«Il Sigillo non è un oggetto. È un varco. E qualcuno lo ha già aperto.»
Boruma sentì la pelle accapponarsi. Non aveva paura: la paura gli era stata strappata via da anni di dolore, sarcasmo e memoria. Ma quella frase, quella voce, lo colpirono al centro del petto come un dardo invisibile.
Il sotterraneo si riempì di vento, un vento che non poteva appartenere a un luogo chiuso. E mentre le ombre si agitavano, Boruma comprese che lo scontro vero non era con quegli uomini: era con ciò che stava per uscire da quel varco.
Cru gli si posizionò accanto, pronto.
Boruma strinse i pugni e sorrise amaramente:
«Nonna, mi sa che queste scarpette dovranno correre più veloce del solito.»
E il buio esplose di voci.

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