Non c’era bisogno di parlare. Rosy gli porse il borraccino e restò a un passo, come si fa quando non vuoi disturbare la preghiera di qualcuno. Cru si sdraiò in ascolto, coda immobile, orecchie pronte a cogliere un accento che solo i cani riconoscono: la sincerità.
Boruma fece scorrere l’acqua sul palmo, poi sulle scarpette di nonna Concetta — un gesto piccolo, quasi superstizioso: “ti porto con me, anche qui”. Il Sigillo, avvolto nella sciarpa, vibrò appena, come un diapason che avverte una nota sorella. Là sotto il rivolo non mormorava: cantava. Non il canto del mare, non quello del vento. Qualcosa di più vicino alla voce umana, ma senza sillabe: una sillaba sola, lunghissima, che teneva insieme.
«Sai perché sono diventato infermiere?» chiese senza guardarla.
«Perché sei testardo.»
Sorrise. «Perché non avevo altro. Volevo insegnare storia e filosofia. Volevo il gesso tra le dita e la lavagna da graffiare, volevo spiegare ai ragazzi che gli dèi cambiano nome ma il cuore umano resta uno. Poi la vita ha tolto la cattedra, ha tolto la famiglia, ha tolto la domenica… e mi ha messo in mano un catetere.»
Rosy socchiuse gli occhi. «E l’hai odiato.»
«Sì. All’inizio l’ho odiato. Mi sembrava la prova finale che il mio sogno fosse ridicolo. Poi ho visto una cosa che il banco non ti mostra: quando fai del bene — non il bene eroico, quello piccolo, quello che sa di alcool e garze — gli occhi della gente si accendono. E lì ho capito che insegnavo lo stesso, solo con un altro alfabeto.»
Tacquero. L’acqua continuava il suo canto di gola.
«Un paziente terminale, una volta,» riprese Boruma, «mi disse: la vita non va capita, va vissuta. Da allora ho smesso di cercare definizioni. Ho iniziato a correre.»
«Per scappare?»
«Per restare. La corsa mi tiene nel corpo quando la testa vuole fuggire. È la mia messa: cervello, cuore e muscoli fanno la comunione. E il mondo… lo guardo meglio quando ci passo in mezzo a passo svelto. Le città parlano più volentieri a chi non pretende di possederle.»
Rosy chinò il capo. La sua voce, quando decise di uscire, era raschiata e limpida insieme.
«Anch’io avevo disegnato una vita diversa. Un dottorato, biblioteche, conferenze. Poi la guerra ha cancellato righe intere. Mi sono ritrovata con in mano un quaderno vuoto e dei bambini attorno. Ho scritto ricominciando dai loro nomi.»
«Hai fatto la cosa più difficile: non inasprirti.»
«Mi ha salvata l’idea che il bene dovrebbe essere l’unica cosa globale. Non il denaro. Non le app.»
«Sottoscrivo. Mettiamo da parte il Fondo Monetario dell’indifferenza, per favore.»
Sorrisero. Quel sorriso era il loro patto di non aggressione contro la stanchezza. Cru si alzò, annusò l’aria, poi si posizionò tra loro due e l’acqua, come se volesse vegliare sul dialogo.
«Sai cos’è che non sopporto?» disse Boruma. «La cattiveria per gioco. Quella dei bulli di scuola, quella dei colleghi che ti fanno mobbing perché la tua gentilezza smentisce la loro mediocrità. Ho visto gente frantumarsi per questo. Io… ci sono passato. Ero un vaso di terracotta in mezzo a vasi di ferro. Poi ho capito Gandhi: la non violenza è una disciplina muscolare. Da allora, se mi pestano, rispondo col sarcasmo. È un cerotto che brucia un po’, ma sana.»
«E quando non basta?»
«Allora mi alzo ancora. Non mi permetto altri esiti. Il suicidio… è una bestemmia alla domenica che ti è capitata in sorte. La vita non è un esame da superare. È pane da mangiare, anche quando è duro.»
Il Sigillo pulsò. Sotto il velo della sciarpa, il bordo lasciò filtrare un filo tiepido, come un respiro sulla pelle. L’acqua, in risposta, cambiò registro: dalle rocce uscì un contrappunto sottile. Boruma si chinò. Vide riflessi che non appartenevano a nessuno: mani di colori diversi che si cercavano, fronti che si toccavano, un abbraccio spezzato che si ricomponeva senza chiedere documenti.
«Non sta ingannando,» mormorò. «Sta ricordando.»
Rosy fece un passo indietro, più colpita che spaventata. «È come se tenesse un archivio di… momenti buoni.»
«Di memoria condivisa. Quella che non fa notizia.»
Boruma sfilò con cautela un lembo di sciarpa. Bastò un istante: sull’orlo della lamina, corrosa dal sale e dal tempo, una microincisione quasi invisibile si accese alla luce. Tre caratteri graffiati e malandati… ma riconoscibili.
ΑΛΕΞΑΝΔΡΕΙΑ.
Alexandria.
Non fu un tuono: fu il clic di una serratura. Rosy lo vide negli occhi di Boruma: la decisione gli era salita dalle calcagna al petto, come quando ingranava l’ultimo chilometro.
«Devi andare,» disse lei, prima che lui lo dicesse a se stesso.
«Sì.»
«Hai intenzione di dirmi “torno presto” come fanno gli uomini che non tornano?»
«No. Ho intenzione di dirti “se non torno, scommetti comunque su di me”.»
Le scappò una risata, breve. Poi si fece seria. «Andrai da solo.»
«Per proteggere l’oasi. E te.»
«Che presunzione.»
«Che prudenza.»
«Che noia, Boruma.»
«Che ti mancherò.»
Si guardarono un attimo in più del necessario. Furono adulti: lasciarono quell’attimo intero, senza toccarlo.
Rosy si sfilò dal polso un laccio di cuoio con una piccola pietra del Mar Rosso. Glielo legò sopra il nodo del laccio destro, sopra le scarpette della nonna.
«Così avrai tre madri che ti tirano avanti: la tua, tua nonna, e il mare.»
«E una sorella maggiore che urla se sbaglio strada.»
«Non fare il furbo, Santoro.»
«È il mio modo di non piangere.»
Cru si avvicinò a Rosy, le appoggiò il muso sulla coscia. Lei gli prese la testa tra le mani e sussurrò qualcosa in arabo. Il cane chiuse gli occhi un secondo, come per memorizzare.
Un ragazzino dell’oasi arrivò di corsa, lanciando parole spezzate: «Gente… in lontananza… tre pick-up… bandiere no… ma…»
Rosy non cambiò tono. «Li terremo occupati con la scuola e il pane. Vai.»
Boruma rimise il Sigillo sotto la sciarpa e lo fissò al torace con due giri di nastro. Non pesava come un trofeo: pesava come una responsabilità. Si alzò, testò col piede destro la sabbia compatta, poi il sinistro. Il corpo sapeva già: quei primi metri sono una dichiarazione di intenti.
«Se mi dimentico chi sono,» disse, «mi telefono.»
«Se ti dimentichi chi sei, cucini. E ti ricordi.»
«Vale anche per te.»
«Io ho i bambini. Non posso dimenticarmi.»
Si salutarono senza abbracci, come fanno i corridori alla linea di partenza. Cru prese la sua posizione a sinistra, mezzo passo avanti. Il beduino più anziano dell’oasi, rimasto a distanza rispettosa, sollevò il mento in segno di benedizione antica.
Boruma partì piano, economia di gesto, respiro a tre tempi. Cervello, corpo, cuore: in asse. Ogni dieci passi una parola: grazie. Ogni venti, un nome: mamma. Ogni cinquanta, un indirizzo: Alexandria. Il Sigillo scaldava senza bruciare; sembrava seguire il ritmo, come un coro in seconda voce.
Dietro di lui, Rosy non si mosse. Guardò finché poté, poi chiuse gli occhi. Non per trattenere le lacrime: per ascoltare. L’acqua cantava ancora. Dentro quel canto c’era una promessa che nessuna casta poteva possedere.
La strada verso nord gli offrì più domande che ombre. Boruma le accolse tutte. Pensò a Shelley e non ebbe paura di farlo. Pensò a Rosy senza vergognarsi. Il dilemma non gli rosicchiava il petto: gli teneva compagnia. “Può un uomo amare due volte?” Non rispose. Lasciò che fosse la corsa a rispondere quando avesse voglia.
Un vecchio camionista lo salutò con un colpo di clacson e un’arancia lanciata al volo. «Per la vitamina C dei santi!» gridò.
«E dei peccatori!» restituì Boruma, centrando la presa senza fermarsi.
Cru, approvando, fece un mezzo giro su se stesso e riprese la traccia.
Il telefono vibrò una sola volta: un messaggio in chiaro, pochi caratteri da un numero che non esisteva.
“Non correre troppo. Alexandria è un labirinto.”
Sotto, una firma che non era una firma: una piccola cicatrice disegnata a forma di virgola.
Boruma sorrise di taglio. «Tranquillo, amico. Io mi perdo bene. E mi ritrovo meglio.»
Alzò lo sguardo: da qualche parte, lontano e chiaro come una parola salvata all’ultimo secondo, Alessandria brillava nella sua mente: biblioteca e porto, lingue e sale, una città che somigliava ai sogni non custoditi dai musei ma dalle persone.
Accelerò di mezzo niente. Il mondo non lo aspettava: lui lo avrebbe raggiunto lo stesso.
Dietro, all’oasi, Rosy mise in fila i piccoli per la lezione. Davanti alla sorgente, l’acqua continuò a cantare, imperterrita.
Non era un addio. Era l’ennesimo via.

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