CAPITOLO XLI — NAYLA, COLEI CHE SENTE

Luxor si stendeva davanti a Boruma come un mosaico sacro, vivo di contrasti:

il colore oro del deserto, il verde liquido del Nilo, il blu profondo del cielo vespertino.

L’aria sapeva di polbe, di datteri maturi, di incenso bruciato sui gradini dei templi.

Ogni passo che Boruma muoveva lungo la corniche gli dava la sensazione di entrare in un quadro rimasto incompiuto per millenni.

Cru camminava al suo fianco, il pelo agitato da una brezza leggera che sapeva più di profezia che di vento.

Da Alessandria al Sud il viaggio era stato lungo, ma non faticoso: Boruma correva, scattava, camminava, riprendeva fiato… e dentro ogni chilometro Rosy appariva come un frammento di luce.

Non il suo volto:

il suo modo di guardarlo.

Con quegli occhi ambrati che sembravano leggere l’anima e non il viso.

Con quella calma che nessuna donna aveva avuto dopo Shelley.

Con quel sorriso capace di accendere perfino la sabbia.

Ogni tanto Boruma si sorprendeva a sorridere tra sé.

Poi, subito dopo, una piccola fitta:

la paura.

Il timore di perdere di nuovo.

Il mostro invisibile che lo seguiva da quando la morte gli aveva portato via tutto.

Luxor però sembrava parlare un linguaggio diverso:

non quello della paura,

ma quello della rivelazione.

Il Tempio che respira

Entrò nel Tempio di Luxor quando il sole stava morendo oltre l’orizzonte.

Le colonne gigantesche sembravano vertebre di un dio addormentato.

Le ombre lunghe correvano come serpenti sulla pietra calda.

Boruma avanzò piano.

Ogni passo risuonava come un tamburo antico.

Il Sigillo, avvolto nella sciarpa, vibrò appena — come se riconoscesse il luogo.

Cru si fermò.

Orecchie dritte.

Un ringhio basso, non di paura ma di attenzione profonda.

«Che c’è, ambasciatore?» mormorò Boruma.

In quel momento una voce lo raggiunse.

Non un’eco.

Non un sussurro.

Una voce piena, femminile.

«Finalmente sei arrivato.»

Boruma si voltò.

Una porta stretta, incastonata tra due colonne, si apriva lentamente.

Dietro, una luce soffice.

E una donna.

Nayla

Era alta, avvolta in un abito color indaco che sembrava scolpito dalla notte stessa.

I capelli — una cascata di grigio e nero — erano intrecciati con piccole conchiglie luccicanti.

La pelle raccontava più storie delle parole: ambra scura, rugosa in punti che ricordavano geroglifici vissuti.

Gli occhi…

gli occhi erano un miracolo.

Color miele scurito dal carbone.

Così profondi da sembrare liquidi,

così fermi da sembrare eterni.

Cru non ringhiò.

Si avvicinò a lei come si avvicina un cane a una presenza che riconosce come “buona”.

«Benvenuto, Boruma di Napoli,» disse Nayla, pronunciando il suo nome come se fosse un titolo.

«Benvenuto anche a te, spirito fedele.»

Accarezzò Cru sulla testa, e Cru abbassò il capo con un rispetto che Boruma non gli aveva mai visto.

«Come… come fai a conoscere il mio nome?» chiese Boruma.

La donna sorrise di lato.

«Il Sigillo canta. E io sento il suo canto.»

Il ricordo che emerge — Dante

Nayla lo guardò come se vedesse attraverso gli anni, e in quello sguardo così profondo — fatto di una saggezza che non giudica ma comprende — Boruma sentì qualcosa muoversi dentro, qualcosa che non veniva né da Luxor né dal deserto.

Un ricordo.

Un volto familiare.

Dante.

Un lampo di sorrisi larghi, pizzetti un po’ storti, occhi buoni che brillavano come due candele votive.

Boruma lo rivide: grande e grosso, voce tonante, la gestualità di un napoletano verace, ma col cuore dolce di un uomo innamorato della Madonna delle Grazie e di San Pio.

Lo aveva conosciuto anni prima, quando stava ancora studiando per diventare infermiere.

Era accaduto per caso — o per destino — durante un matrimonio.

Dante si era seduto accanto a lui al tavolo degli amici dello sposo e, mentre addentava una sfogliatella gigante, gli aveva detto:

«Guagliò, tu tieni ’a luce dint’ô core.

Tu sì nato pe’ fa’ bene, non pe’ restà ‘int’ô burdello d’‘e paure.»

Da quel momento Dante era diventato una guida.

Un fratello maggiore.

Un apostolo di strada.

Di giorno vendeva scarpe in un negozio elegante di via Toledo, ma la sera riempiva autobus di ragazzi sbandati, li portava a San Giovanni Rotondo, li faceva confessare, pregare, ridere, piangere, rinascere.

Faceva apostolato come si fa un mestiere d’amore.

Con carisma, forza e occhi che vedevano oltre.

A Boruma aveva detto una frase che gli era rimasta incisa nella carne:

«L’infermiere nun è nu mestiere.

È ’na missione.

Quanno ‘o fai cu ’o core, diventi medicina pure tu.»

Fu Dante a dirgli che i suoi morti non l’avevano mai lasciato,

che sua madre camminava con lui,

che sua nonna vegliava sul suo sonno,

che il dolore non era un muro ma un ponte.

Fu Dante a spingerlo a lasciare Napoli quando ottenne il diploma,

a convincerlo che la paura non può essere una casa,

a dirgli:

«Vattenne, Borù.

Chi tene fede nun se perde.»

E ora, mentre Nayla lo fissava con quegli occhi che sembravano pozzi antichi di verità, Boruma capì perché quell’incontro non lo spaventava.

Lo aveva già vissuto.

Sotto un’altra forma.

Con un altro volto.

Con Dante che gli parlava della forza invisibile, del bene, della missione, della luce che portava dentro.

Il passato e il presente si toccarono come due dita di un affresco.

Boruma deglutì, commosso.

Nayla inclinò la testa, come se avesse visto quel ricordo scorrergli dentro.

«Sì,» disse sottovoce, «anche lui fu mandato. Come me.»

Un brivido gli attraversò la schiena.

La stanza nascosta

Nayla lo condusse attraverso la porticina.

La stanza era piccola, ma sembrava grande come una cattedrale:

statua mutilata di Iside, papiri arrotolati, una lampada eterna, ciotole d’acqua del Nilo.

«Perché sono qui?» chiese Boruma.

«Perché il Sigillo ha scelto te,» rispose Nayla.

«E tu non sai ancora cosa questo significhi.»

«La Casta lo vuole. Cosa teme?»

Nayla inspirò.

«La verità.»

«Il Sigillo è un’arma?»

«No.

È uno specchio.

Rivela che tutte le religioni provengono dalla stessa radice.

Che Dio non appartiene a nessuno.

Che il potere crolla quando le persone scoprono di essere sorelle.»

Poi, posando un dito sul Sigillo bendato:

«Tu porti l’amore come una ferita, Boruma.

Un amore che ti tiene schiavo del passato.

E ti impedisce di vedere un amore che si avvicina.»

Rosy.

La voce di Nayla era morbida, ma inesorabile:

«Gli antenati ti spingono verso la vita.

Tu continui a tornare dalla morte.»

Boruma sentì il cuore aprirsi come una pagina bagnata.

Un avvertimento

«Domani verranno delle ombre,» disse Nayla.

«Non quelle della fortezza.

Più antiche.

Più sottili.»

«Chi?»

«Chi conosce il Sigillo quanto me… ma ha scelto il lato sbagliato.»

«Cosa devo fare?»

«Proteggere il Sigillo.

Proteggere Cru.

Proteggere te stesso.

E proteggere il tuo cuore: è il tuo vero dono.»

L’uscita

«Hai paura?» gli chiese.

Boruma sorrise con quella luce napoletana che lo rendeva unico.

«No.

Ho già perso tutto.

Ora posso solo andare avanti.»

Nayla annuì.

«Allora il Sigillo ti ascolterà.»

La porta si chiuse.

Il vento del Nilo gli accarezzò il volto.

E Boruma, con Cru al fianco e il Sigillo sul cuore,

sentì Luxor cambiare respiro.

Come se qualcuno…

o qualcosa…

stesse arrivando davvero.

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