CAPITOLO XLII — Lezioni sul Nilo

La notte su Luxor non calava: scivolava.

Il giorno si ritirava piano dalle colonne, lasciando sulla pietra il ricordo del sole come una carezza tiepida. Il Nilo respirava a pochi metri, nero e lucente, tagliato dalle ombre delle feluche che rientravano lente, vele chiuse come palpebre stanche.

Boruma camminava lungo la corniche con Cru al fianco. Aveva ancora nelle orecchie la voce di Nayla, le sue parole sul Sigillo, su Dio che non è proprietà di nessuno, sulle preghiere come sorelle.

Il Sigillo, stretto sotto la camicia, pulsava piano.

Non come un allarme.

Come un cuore che si fosse appoggiato al suo.

Si fermò vicino a un piccolo molo di legno, dove un vecchio stava pulendo una barca. L’odore di gasolio, pesce e incenso si mischiava all’aria dolce della sera. Più in là, si sentiva il richiamo alla preghiera, spezzato dai clacson pigri dei taxi e dalle risate di alcuni ragazzi che giocavano a pallone in un vicolo.

Luxor era un tempio e una periferia allo stesso tempo.

Un altare e un cortile.

Boruma guardò il fiume e, senza rendersene conto, sospirò.

Rosy.

Non vedeva il suo volto riflesso nell’acqua, ma la sua assenza gli stava accanto come una persona vera. Gli bastava chiudere gli occhi per rivederla all’oasi: capelli neri mossi dal vento, occhi color ambra che sembravano trattenere il deserto e il mare insieme, corpo atletico nascosto in movimenti semplici, labbra carnose capaci di dire cose dolcissime e frasi taglienti come lame.

“Una possibilità”, aveva detto Nayla.

Boruma sorrise amaramente.

Per lui le possibilità, nella vita, erano spesso diventate ferite.

Si sedette sul bordo del molo, le gambe penzoloni sopra l’acqua scura. Cru si accucciò vicino, muso sulle scarpette della nonna, come a proteggerle. Il Sigillo scaldava il petto, ma un altro calore si stava facendo strada: un antico, familiare fuoco di parole.

Non era la voce di Nayla.

Era quella di un altro maestro.

Il professore

«Santoro!»

La voce rimbombava nel corridoio del liceo come un colpo di tamburo.

Boruma si rivide sedicenne, spalle strette nello zaino, sguardo timido, quaderni pieni di appunti e disegni ai margini: piccole rose, cactus appuntiti, mappe del Mediterraneo.

Il professore di storia e filosofia — il “Prof” con la P maiuscola — avanzava lentamente verso l’aula, basso e grassottello, la sigaretta penzolante all’angolo della bocca, una busta della spesa in plastica piena di libri e quotidiani in una mano, due volumi sotto l’ascella, la giacca lisa che si rifiutava ostinatamente di chiudersi.

Aveva un ciuffo bianco, ribelle, che sembrava una virgola impazzita in mezzo alla fronte. Mancavano diversi denti, ma quando rideva — e rideva spesso — la mancanza diventava una firma, non un difetto.

«Ragazzi,» annunciava entrando in aula, lasciando la busta per terra con un tonfo, «oggi non parliamo di filosofia. Oggi parliamo di voi.»

Poi tirava fuori dalla busta le armi del mestiere: un giornale stropicciato, un libro di Platone, una Bibbia consumata, una copia del Corano, magari un testo di storia delle religioni con la copertina quasi distrutta.

«Voi pensate che la storia siano le date…» esclamava, con la voce roca per il fumo, «…ma la storia sono le domande che gli uomini fanno a Dio e a se stessi. E le filosofie sono i tentativi di risposta.»

Camminava tra i banchi, sbattendo il giornale aperto sulle notizie di guerra, di crisi economiche, di migrazioni, di muri alzati e barconi affondati.

«Guardate qui. Stessa paura, nomi diversi. Stessa ignoranza, bandiere diverse. Stesso egoismo, inni diversi.»

Poi alzava la Bibbia.

«Questa è una finestra.»

Mostrava il Corano.

«Questa è un’altra finestra.»

Accennava al Talmud, a Buddha, ad Aristotele, a Rumi.

«Ma fuori dalle finestre… è lo stesso giardino.»

Boruma quella frase non se l’era mai tolta dalla testa.

Giardino.

Molti anni dopo, a Gaza, Joshua gli avrebbe parlato dei due giardini — quello delle rose e quello dei cactus — e Shelley sarebbe stata l’ape che volava tra i fiori armati di spine. Ma la prima volta che Boruma aveva sentito che la fede non era una trincea, ma un paesaggio da contemplare e custodire, era stato lì, in quella classe di liceo, con il gesso che scricchiolava sulla lavagna.

«Vi voglio ignoranti ma curiosi!» urlava il professore, piantando il mozzicone di sigaretta in un bicchiere d’acqua ormai consacrato a posacenere. «Non mi interessa il voto, mi interessa se imparate a guardare il mondo senza farvi imbrogliare da chi urla più forte. Chi vi dice che Dio è solo dalla sua parte… vi sta vendendo una bugia.»

Poi si fermava davanti a Boruma, che lo fissava in silenzio, affascinato.

«Santoro,» lo indicava col gesso, «tu tieni la testa buona… ma soprattutto tieni il cuore aperto. Non chiuderlo mai, manco quando ti farà male. Perché se lo chiudi, smetti di capire la storia. E senza storia… si diventa manovalanza dell’odio.»

Gli altri ridevano, ma non per deridere: ridevano per liberazione. Quelle lezioni erano una scossa, un terremoto buono. Il professore insegnava filosofia, ma in realtà stava insegnando a non diventare complici del cinismo.

Boruma, in quei pomeriggi, usciva da scuola col cervello in fiamme. Sognava di diventare come lui: un insegnante di storia e filosofia, un uomo capace di parlare alle coscienze, di mettere in crisi le bugie, di aprire finestre sul giardino invisibile.

La vita, invece, lo aveva portato in corsia.

Infermiere, non professore.

Terapia intensiva, non cattedra.

Per anni aveva pensato di aver “tradito” quel sogno.

Solo più tardi, con Dante e con il lavoro tra i letti dei malati, aveva capito che stava solo cambiando lavagna.

Luxor, il Nilo, e la Rosa e il Cactus

La voce del professore si spense lentamente, come un’eco che si adagia.

Boruma tornò al presente. Il Nilo scorreva davanti a lui, nero e denso. Dall’altra parte, le luci dei villaggi riflettevano tremolanti sull’acqua. Ogni luce, una casa. Ogni casa, una storia.

Si toccò il petto, sul Sigillo.

«Uno specchio,» sussurrò. «Un giardino. Le stesse parole che usavi tu, Prof.»

Gli parve quasi di vederlo, appoggiato a una colonna del tempio, con la busta della spesa in mano, la sigaretta accesa e quell’aria da filosofo sgangherato.

“Fuori dalle finestre è lo stesso giardino…”

Giardino di rose.

Giardino di cactus.

Shelley gli aveva spiegato la metafora in una terra di bombe.

Joshua gliel’aveva mostrata sui muri screpolati di una scuola.

Il professore gliel’aveva annunciata tra i banchi di un liceo napoletano che odorava di gesso e di panino imbottito.

Luoghi diversi, stessa lezione:

l’umanità è una sola, anche quando si dimentica di esserlo.

Cru sollevò il muso.

Due uomini passavano alle loro spalle, parlavano arabo fitto. Uno, distrattamente, tracciò con la punta della scarpa un disegno nella polvere del molo. Non si accorse nemmeno di averlo fatto. Se ne andarono dopo pochi secondi, inghiottiti dal vociare della via.

Boruma si voltò, distratto.

Poi restò immobile.

Per terra, nella polvere, c’era un segno.

Una rosa stilizzata.

E accanto, un piccolo cactus.

Non era preciso, non era “simbolo ufficiale”.

Era quasi un gioco involontario.

Eppure, il sangue gli gelò.

«Li vedi, Cru?» sussurrò. «Ci inseguono anche qui.»

Il cane annusò la polvere, poi alzò lo sguardo verso di lui. Non ringhiò. Ma le orecchie si tesero.

Boruma cancellò il disegno con la suola.

Troppo tardi.

Una voce alle sue spalle parlò in un italiano quasi perfetto:

«È un bel simbolo, sai? La rosa e il cactus. Peccato che, a volte, chi ci gioca non sa quanto tagliano le spine.»

Boruma si girò lentamente.

Un uomo sulla cinquantina, giacca chiara, camicia sbottonata al collo, un cappello di lino tra le dita. Volto mediorientale, ma con qualcosa di europeo nello sguardo. Né turista, né locale qualsiasi. Un ibrido, come la città stessa.

«Ci conosciamo?» chiese Boruma, con calma.

L’uomo sorrise. Non era un sorriso amichevole, ma nemmeno apertamente ostile. Era il sorriso di uno abituato a parlare in stanze chiuse, non nelle piazze.

«Non ancora,» rispose. «Ma so chi sei. L’uomo con il cane fedele. Il corridore che porta al petto ciò che molti vorrebbero sepolto.»

Gli occhi scivolarono, impercettibili, verso il punto in cui Boruma teneva il Sigillo.

Un secondo di troppo.

Cru emise un ringhio sommesso.

«Tranquillo,» disse l’uomo. «Non sono venuto per combattere.»

Fece un passo avanti.

«Sono venuto per… avvisarti.»

Boruma non rispose.

Il Nilo sembrò trattenere il respiro.

«Quando scopriranno che sei passato da Nayla,» continuò l’uomo, «la Casta non si limiterà a mandare i soliti scagnozzi con il coltello. Verranno quelli che sanno usare le parole. E i ricordi. E i rimpianti.»

«Sono già allenato,» replicò Boruma. «Ho una buona squadra: i miei morti, un cane, e un paio di scarpette della nonna.»

Un lampo ironico attraversò gli occhi dell’uomo.

Per un istante sembrò quasi divertito.

«Napoli,» mormorò. «La riconoscerei ovunque. Anche qui. Anche in te.»

Boruma sentì una stretta al petto.

Napoli.

La sua città, il suo porto interiore.

I vicoli del centro storico, i panni stesi come bandiere private, le chiese che spuntano ovunque come domande, il profumo di pizza e di mare, la luce del sole che si frange sul Vesuvio, l’odore di benzina a Mergellina, i clacson, le edicole votive, le statue dei santi illuminate da lampadine colorate.

Napoli l’aveva salvato dalla solitudine di bambino.

Non si era mai sentito davvero solo, finché poteva perdersi tra Spaccanapoli e il Duomo, salire a Capodimonte a correre, respirare il golfo e parlare mentalmente con i morti guardando il Vesuvio.

Napoli era terra di rose e cactus insieme:

tenerezza e ferocia, poesia e caos, miseria e nobiltà.

Forse era per quello che lui capiva così bene quella metafora.

Ci era nato dentro.

«Chi sei?» chiese finalmente.

L’uomo esitò un istante, poi sorrise di nuovo.

«Uno che ha fatto per anni quello che volevano loro,» disse. «E che ora sta cercando di non farlo più. Diciamo che… sono un disertore elegante.»

Boruma alzò un sopracciglio.

«E perché dovrei fidarmi?»

«Non devi.»

Si strinse nelle spalle.

«Ma ricorda questo: il Sigillo non mostra solo la radice comune delle religioni. Mostra anche chi, nella storia, l’ha saputa ascoltare davvero. E chi l’ha tradita per sete di potere.»

Fece un passo indietro.

Cru lo seguì con lo sguardo, teso come una corda.

«C’è un manoscritto a Sud,» aggiunse l’uomo. «Vicino a un vecchio monastero. Lo chiamano “Il Libro delle Sorgenti”. Nayla te ne avrà parlato. Tu devi arrivarci prima di loro.»

«Prima di chi?»

Lo sguardo dell’uomo si fece improvvisamente cupo.

«Di chi ha deciso che il mondo è più facile da governare quando ha paura dell’Altro. La Casta non è solo un gruppo di uomini ricchi e annoiati, Boruma. È un’idea. Un’idea che si alimenta di cinismo. E tu, con la tua fede, con la tua corsa, con i tuoi ragù e i tuoi babà, sei un problema.»

Boruma rise appena.

«Essere un problema per loro mi fa sentire nel posto giusto.»

L’uomo scosse il capo, quasi con affetto.

«Tu giochi con l’ironia. Loro no. Loro useranno tutto: Rosy, i tuoi morti, la tua Napoli, la tua voglia di famiglia. Ti faranno vedere ciò che avresti potuto avere. E ti chiederanno di barattarlo con il Sigillo.»

Un brivido freddo scese lungo la schiena di Boruma.

Rosy.

I Natali perduti.

Una tavola di nuovo piena.

«E tu da che parte stai?» chiese, diretto.

L’uomo guardò il Nilo.

La sua voce si abbassò.

«Io sto… nel mezzo. Troppo sporco per stare con i giusti, troppo stanco per restare con i bugiardi. Ma vederti qui, con quel cane e con quella luce negli occhi… mi dà fastidio. Perché mi ricorda com’ero quando ci credevo anch’io.»

Si voltò per andarsene.

Poi si fermò, senza guardarlo.

«Ah, dimenticavo. Non tornare da Nayla. La stanno aspettando. Non sarà lei a morire, se la trovano. Saranno i suoi bambini.»

Il cuore di Boruma ebbe un sussulto.

«Come fai a saperlo?»

«Perché questo è ciò che fanno con chi vede troppo: non lo colpiscono direttamente. Gli bruciano il giardino.»

La rosa.

Il cactus.

Boruma strinse i pugni.

«Lo sai che un giorno o l’altro dovremo affrontarci davvero, vero?» disse.

L’uomo annuì appena.

«Lo so.»

Poi aggiunse, a bassa voce:

«E spero che quel giorno tu vinca.»

Si allontanò, inghiottito dal viavai della corniche.

Boruma restò fermo, a guardare il punto dove era scomparso.

Cru gli poggiò il muso sulla mano.

Il Sigillo gli scaldava il petto, quasi bruciasse.

«Un libro a Sud…» mormorò. «Il Libro delle Sorgenti.»

Napoli gli tornò dentro: il professore col ciuffo bianco che urlava “Fuori dalle finestre è lo stesso giardino!”, i vicoli, il sole, le chiese, i santi, la musica lontana di una radio in un basso.

Rosy gli tornò dentro: il suo modo di parlare ai bambini, i suoi occhi, la sua scelta di restare in quell’oasi dove il mondo sembrava finire e ricominciare allo stesso tempo.

Nayla gli tornò dentro: «Proteggi il Sigillo, proteggi il cane, proteggi il cuore.»

Boruma chiuse gli occhi.

«Prof,» sussurrò dentro di sé, «stavolta la lezione è fuori dall’aula, eh?»

Aprì gli occhi, guardò Cru.

«Andiamo, ambasciatore. Il Nilo scende a Sud. E noi con lui.»

Il vento cambiò direzione.

Le luci di Luxor sembrarono tremare per un istante.

Da qualche parte, tra deserti e monasteri, la Rosa e il Cactus lo stavano aspettando.

E la Casta, nell’ombra, cominciava a stringere il cerchio.

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