CAPITOLO XLIII— La Rosa e il Deserto

Il deserto non era più una distesa vuota, ma una pagina antica, tutta da leggere.

Ogni granello di sabbia sembrava una lettera, ogni duna un verso lasciato a metà da un dio stanco e innamorato degli uomini.

Boruma correva piano, senza misurare il tempo né la distanza. Cru gli restava accanto, in silenzio, come un pensiero che non aveva bisogno di parole. Il Sigillo, avvolto nella sciarpa, non pulsava più con insistenza — ora sembrava respirare insieme a lui, come se lo stesse imparando.

Si fermò su un’altura che guardava a sud, dove il Nilo non era che un filo lontano e il cielo pareva piegarsi a sfiorare la terra.

Chiuse gli occhi.

E nel silenzio sentì una voce che non proveniva dal Sigillo, né dal deserto.

Era Rosy.

Non un’immagine precisa — ma il ricordo del modo in cui lo guardava.

Quello sguardo che non chiedeva niente e offriva tutto.

Quello stesso sguardo che, senza accorgersene, gli aveva rimesso insieme le parti rotte dell’anima.

Boruma sfiorò con le dita la medaglietta che portava al collo.

Non per superstizione.

Per memoria.

La rosa e il cactus.

Delicatezza e resistenza.

Spina e profumo.

Lei e lui.

“Forse siamo la stessa pianta che cresce in terreni diversi,” pensò.

E per la prima volta da anni, non fuggì da quel pensiero.

Il villaggio dimenticato

Più avanti comparvero delle costruzioni basse, quasi fusi con la terra: una dozzina di capanne di fango e canne, una piccola sorgente e bambini scalzi intorno ad un fuoco spento.

Niente elettricità. Niente telefoni. Niente rumore del mondo moderno.

Solo vita.

Un vecchio lo osservava seduto su una pietra piatta. Indossava un turbante color cenere e aveva occhi giovani in un viso antico.

«Sei arrivato fin qui portando qualcosa che non ti appartiene» disse in arabo lento.

Boruma si fermò. «Forse non appartiene a nessuno.»

Il vecchio sorrise. «Allora appartiene a tutti.»

Cru annusò il terreno. I bambini si avvicinarono, e Boruma ne riconobbe uno dei tanti volti già visti a Gaza, negli sguardi stanchi ma liberi.

«Chi siete?» chiese piano.

«Siamo quelli dimenticati dai confini. Non ci interessa il nord, né il sud. Il Sigillo invece ci ha scelti secoli fa.»

Boruma sentì qualcosa stringersi nel petto.

«Lo conoscete?»

Il vecchio annuì. «Lo conosciamo, ma non lo possediamo. Lo abbiamo soltanto protetto. Da uomini come la Casta. Da uomini che volevano usarlo per dominare i popoli.»

Poi indicò il deserto:

«L’origine non è un tempio.

Non è una religione.

Non è un impero.

È la stessa in ogni cuore che ama senza chiedere nulla in cambio.»

Quelle parole scivolarono dentro Boruma come acqua dolce.

La verità che unisce

Quella notte gli offrirono un giaciglio di foglie e un pane semplice, cotto su una pietra calda. Boruma lo spezzò in silenzio, e nel gesto vide la tavola di sua madre, le mani della nonna Concetta, il sorriso di Shelley, gli occhi di Rosy.

“Forse non esiste un unico amore” pensò.

“Forse l’amore è un filo che attraversa molte vite, ma resta sempre lo stesso.”

Il Sigillo, sotto la sciarpa, diede un leggero impulso.

Non un comando.

Una risposta.

Cru si accucciò vicino al suo petto.

Respiravano insieme.

E prima di addormentarsi, Boruma vide chiaramente ciò che fino a quel momento aveva evitato:

Una casa modesta.

Una tavola apparecchiata.

Mani che impastano.

Risa di bambini.

E lei — Rosy — che incrocia il suo sguardo, senza paura.

Non un sogno.

Una possibilità.

Da lontano, molto lontano, una macchina si fermò nel deserto.

Un uomo osservava con un binocolo.

«Lo ha trovato» disse al telefono.

«E ora non vorrà più tornare indietro.»

La Casta non aveva dimenticato.

Stava aspettando il momento giusto.

Il vento cambiò direzione.

Un profumo leggero attraversò il deserto.

Di rosa.

E di terra viva.

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