Luxor era già lontana quando Boruma e Cru ripresero la strada verso il Sud.
Il deserto si apriva come una mappa infinita, tracciata non da mani umane ma da venti antichi.
Eppure, quel giorno, qualcosa nell’aria era diverso.
Un silenzio più denso.
Un’attesa che non apparteneva alla sabbia.
Un presagio.
Boruma lo avvertiva nel modo in cui Cru, ogni tanto, si fermava a guardare l’orizzonte come se avesse visto un’ombra che non era ancora arrivata.
Ma non era la Casta, non ancora.
Era qualcos’altro.
Era dentro Boruma.
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Il mercante cieco
Nel piccolo villaggio di El-Minya, un luogo di tende sfinite dal sole e vecchie radio che sputavano cori del Nilo, Boruma si fermò per prendere acqua.
Il caldo era feroce, quasi biblico.
A un angolo, vide un uomo cieco.
Seduto per terra.
Magro come una preghiera troppo lunga.
Il cappello davanti a lui era vuoto.
Non un soldo.
Non uno sguardo.
Boruma si avvicinò.
Cru si sedette accanto, come se avesse capito che quello era un momento diverso.
«Salam aleikum, amico mio,» disse Boruma.
L’uomo sollevò il volto verso la sua voce, non verso il suo corpo.
E Boruma vide qualcosa che lo colpì come un fulmine:
quell’uomo sorrideva nonostante tutto.
Un sorriso lento, dolce, che affrontava la vita come si affronta un mare troppo grande:
non opponendosi, ma fluttuando.
«Non vedo la luce,» disse l’uomo. «Ma la sento passare quando qualcuno si ferma.»
Boruma rimase in silenzio per un istante.
Poi si abbassò e gli prese la mano.
Callosa.
Calda.
Stanca.
«Tu la luce la porti, non la ricevi,» mormorò Boruma.
L’uomo rise piano.
Boruma mise nel cappello non soldi — non ne aveva — ma pane.
Spezzato con le mani.
E aggiunse una borraccia d’acqua fresca.
Il cieco lo toccò sul braccio e disse:
«Gli uomini come te passano senza clamore… eppure lasciano una traccia che non si spegne.»
Boruma sentì un brivido.
Il cieco non poteva sapere.
Eppure aveva pronunciato le parole esatte, perfette, che avevano lo stesso suono della poesia che Boruma aveva dentro sin da ragazzo.
Gli invisibili che illuminano il mondo.
Non era più solo una poesia:
era la sua vita.
Era lui.
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L’ombra della Casta
Quando lasciò il villaggio, Cru smise di agitare la coda.
Si fece rigido, vigile.
Nel deserto, non lontano, una jeep nera sollevava un filo di polvere.
Non si avvicinava.
Non lo seguiva.
Lo misurava.
Boruma capì subito.
«Sono loro, eh? Meglio correre, ambasciatore.»
Partì a passo leggero:
le scarpette della nonna affondavano e risalivano come se fossero cresciute per correre sulla sabbia.
Il Sigillo, sotto la tunica, vibrò una volta.
Poi ancora.
Non di paura.
Di allerta.
La jeep rallentò, poi si fermò.
Uno sportello si aprì.
Una figura scese.
Un mantello color ocra.
Un volto coperto.
Un uomo.
Uno dei supervisori della Casta.
«Boruma!» gridò. «Non attraversare il passo! Ti avverto: c’è chi non vuole che tu arrivi vivo a Luxor, né oltre!»
Boruma si fermò a trenta metri di distanza.
Cru ringhiò appena.
«Perché vi interessa tanto che io fallisca?» chiese Boruma, con calma.
L’uomo si tolse il velo dal volto.
Era giovane.
Molto giovane.
Troppo giovane per portare negli occhi un dolore così vecchio.
«Perché il Sigillo non è solo un simbolo,» disse.
«È una storia. E una storia può distruggere un impero più velocemente di un’arma.»
«Ma quale impero volete difendere?»
Il giovane abbassò lo sguardo.
Le mani tremavano.
«Quello fondato sulla paura.»
Boruma sentì le parole come pietre nel petto.
Il giovane aggiunse:
«Non posso ostacolarti… ma non posso nemmeno aiutarti apertamente. Ho visto cosa sei in grado di fare. Ho visto come lotti senza odiare. Ti avverto soltanto: non fidarti di chi dice di essere tuo alleato. Ci sono occhi ovunque.»
Boruma annuì.
Un vento caldo passò tra i due, come se avesse portato via qualcosa che non si poteva dire.
Poi il giovane risalì sulla jeep e scomparve.
Cru sollevò il muso e guaì, triste.
«Lo so,» disse Boruma accarezzandolo. «Anche lui è prigioniero.»
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Un pensiero che brucia
Riprese a correre verso Sud.
Il deserto cambiava colore ogni venti minuti:
oro, rame, rosa, arancio, viola.
Un planetario vivo.
E in tutto quel silenzio immenso…
…il pensiero di Rosy tornò.
Forte.
Caldo.
Inquieto.
Il suo sorriso quando parlava dei bambini.
La sua mano ferma mentre suturava ferite.
La sua voce dolce ma tagliente come una lama d’argento quando parlava di giustizia.
Boruma rallentò.
Per un istante sentì il cuore pesante, non di dolore ma di possibilità.
«Potrei amare ancora?» pensò.
Non lo sapeva.
Aveva paura.
Una paura antica:
perdere di nuovo.
Restare vuoto.
Essere tradito dalla vita.
Ma poi si ricordò del cieco.
Gli uomini come te passano senza clamore… eppure lasciano una traccia che non si spegne.
E se Rosy avesse visto quella traccia?
E se lei, unica dopo Shelley, avesse percepito la sua luce?
Il vento del deserto si alzò.
La jeep era ormai lontana.
La strada verso il Sud era solo sua.
Di lui.
Di Cru.
E di quel Sigillo che finalmente iniziava a parlare.
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L’ultima immagine
Prima che il sole tramontasse, il cielo si incendiò in un rosso innaturale.
Boruma si fermò su un’altura.
Cru gli si sedette accanto, poggiando la testa sulla sua coscia.
«Lo senti anche tu?» mormorò Boruma.
Il Sigillo pulsò sotto la tunica.
Non era un pericolo.
Era una chiamata.
Qualcuno — o qualcosa —
lo stava aspettando oltre l’orizzonte.
E la sua storia, la storia degli invisibili,
stava finalmente prendendo forma.

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