Nessuna mappa lo segnava.
Eppure tutti, prima o poi, ne avevano sentito parlare.
C’era un luogo — tra il deserto che consuma e il mare che ricorda — dove il vento non chiedeva il nome a chi passava. Non perché fosse sacro, ma perché lì il nome non serviva.
Gli anziani dicevano che si trovava solo quando si smetteva di cercarlo.
I pellegrini lo chiamavano in cento lingue diverse.
I mercanti lo evitavano.
I soldati non riuscivano mai a raggiungerlo.
La leggenda raccontava che chi arrivava fin lì perdeva tre cose:
il nome,
la provenienza,
e la certezza di avere ragione.
Ma ne guadagnava una sola.
E bastava.
La verità di ciò che amava.
Boruma ascoltò quella storia una sera senza stelle, mentre il fuoco disegnava ombre irregolari sulle pietre. Cru dormiva con il muso tra le zampe, come se anche lui stesse ascoltando. La voce che narrava non aveva enfasi, né solennità: era una voce stanca, antica, onesta.
«In quel luogo,» disse l’uomo, «non puoi mentire.
Perché nessuno ti sta giudicando.»
Boruma sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Non era paura. Era riconoscimento.
La leggenda proseguiva:
Chi entrava portando un’arma, la trovava inutile.
Chi entrava portando un libro, lo dimenticava aperto.
Chi entrava con una preghiera, la lasciava a metà.
Ma chi entrava con una ferita —
quella sì —
usciva diverso.
Non guarito.
Ma capace di camminare senza farsene scudo.
Dicevano che in quel luogo erano passati uomini santi e uomini violenti.
Re e mendicanti.
Madri in silenzio e padri pieni di vergogna.
E che nessuno fosse mai uscito uguale a come era entrato.
Perché lì non ti veniva chiesto chi sei.
Ti veniva chiesto chi sei disposto a perdere.
Boruma pensò a Shelley.
Alla nonna.
Alla madre.
A Rosy — senza dirne il nome, come se il vento potesse sentirlo.
Capì allora perché quella leggenda gli stava parlando proprio adesso.
L’uomo concluse con parole che sembravano incise nel buio:
«Chi attraversa quel luogo non diventa migliore.
Diventa più vero.
E spesso è molto più difficile.»
Il fuoco si abbassò.
Il silenzio tornò a respirare.
Boruma rimase immobile a lungo, gli occhi fissi davanti a sé. Non chiedeva dove fosse quel luogo. Non ne aveva bisogno.
Perché lo sentiva.
Era stato lì quando aveva sorriso ai pazienti mentre soffriva.
Era stato lì quando aveva corso senza musica, cantando dentro.
Era stato lì ogni volta che aveva scelto l’amore senza garanzie.
Forse — pensò — quel luogo non è un punto sulla terra.
Forse è uno stato dell’anima.
Si alzò piano.
Cru fece lo stesso.
Il vento cambiò direzione.
E Boruma comprese una cosa che nessuna mappa avrebbe mai potuto insegnargli:
Ci sono luoghi che non chiedono di essere trovati.
Chiedono solo che tu sia pronto a non nasconderti più.
Il viaggio continuava.
Ma da quel momento in poi,
qualcosa — dentro di lui —
aveva smesso di fuggire.

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