CAPITOLO XXIII — La Via del Sinai

Le aveva tenute in fondo allo zaino per anni, avvolte in una federa di cotone che ancora sapeva di armadio buono e sapone di Marsiglia. Erano un paio di scarpette color crema, leggerissime, con il profilo dorato che ricordava una foglia di limone. Gliele aveva regalate nonna Concetta l’ultima estate a Sorrento.

«Quando le metterai,» gli aveva sussurrato stringendogli i lacci fra le dita, «io camminerò con te, pure se starai correndo.»

Boruma non le aveva mai usate. Era come se avesse avuto paura di consumare l’ultimo abbraccio. Quella mattina, invece, seduto sul muretto polveroso di Rafah con Cru appoggiato alle ginocchia, decise che era arrivato il momento. Infilò le scarpette, sentì la tomaia aderire come una carezza e annodò i lacci due volte, a croce, come gli aveva insegnato lei. Poi si alzò, picchiettò due volte la suola sulla sabbia — toc, toc — e sorrise:

«Nonna, oggi vieni a vedere il Sinai.»

Cru inclinò la testa, approvando.

La rotta (a tappe)

I Custodi gli avevano dato un’indicazione semplice e terribile: “Vai in Egitto. Là c’è un reperto che può cambiare il mondo. È dove il granito tocca il mare.” Niente mappe, solo un filo di parole. Il resto lo avrebbe scritto con i piedi.

Tappa 1 — Rafah (PS) → Rafah (EG)

10 km, sabbia e cemento. Alba.

Attraversarono il valico ancora in penombra, grazie a contatti che Joshua aveva tessuto come fili invisibili. Boruma corse piano, scaldando il fiato, lasciando che il battito trovasse un ritmo buono. Cru procedeva accanto, zampa morbida sulla polvere, fasciature sottili ai cuscinetti unte di cera d’api per proteggerli.

Al primo chiosco, un vecchio panettiere gli porse una shrak calda.

«Pagherò al ritorno,» disse Boruma.

«Al ritorno paghi con una storia,» ribatté l’uomo.

«Le storie sono care.»

«Meglio dei proiettili.»

Risero tutti e tre, anche Cru, a modo suo.

Tappa 2 — Rafah → Sheikh Zuweid → Al-‘Arīsh

60 km, strada costiera, tamarischi, mare azzurro a sinistra.

Il Mediterraneo si apriva come una lama di luce, le dune spezzavano il vento. Nei tratti d’asfalto Boruma alzava appena il ritmo, poi recuperava sulle piste di sabbia. Il training autogeno accendeva visioni: “Inspiro — sono albero. Espiro — sono onda. Inspiro — tribù. Espiro — strada.”

Passando un checkpoint, un agente alzò un sopracciglio:

«Correre? Perché?»

«È più economico della psicanalisi,» fece Boruma. «E più onesto.»

L’agente trattenne un sorriso e lasciò passare. Cru fece finta di niente, con la dignità di un console romano.

Tappa 3 — Al-‘Arīsh → Bir al-‘Abd (bivacco beduino)

75 km in due giorni, pianura salmastra.

Il colore del mondo cambiava: il mare restava alle spalle e il deserto arrivava basso, come una bestia stanca. Al bivacco, una donna beduina fasciò una piccola crepa sul polpastrello di Cru con latte e farina.

«Per i re e per i cani, il rimedio è uguale,» disse.

«E per i corridori?»

«Tè forte. Quello che resuscita i morti.»

Bevvero in silenzio, guardando le stelle scendere come braci.

Tappa 4 — Bir al-‘Abd → an-Nakhl (il cuore del Sinai)

85 km, wadi di pietra, vento di scirocco.

Qui il silenzio faceva rumore. Boruma correva a intervalli: venti minuti a occhi socchiusi, dieci di passo largo. Il training autogeno si faceva più profondo: “Il corpo è pesante, la fronte è fresca, il respiro è largo.” Le immagini arrivavano fitte — scuole senza muri, mani che si cercano, preti, imam e rabbini seduti allo stesso tavolo — e ogni visione gli toglieva un grammo di paura.

Un camionista appoggiato a un cassone gli fece cenno.

«Ti do un passaggio!»

«Grazie, ma oggi ho promesso alla terra di ascoltarla.»

«E lei ti risponde?»

«Sì. Dice che pesa quanto noi.»

Il camionista scoppiò a ridere. «Filosofi e corridori… stessa categoria di pazzi!»

Tappa 5 — an-Nakhl → Santa Caterina (granito e freddo di quota)

70 km in due giorni, salite secche, aria sottile.

Le montagne del Sinai spuntavano come ossa antiche. La sera, al riparo di un muretto, Boruma parlò alla nonna:

«Vedi le scarpette? Non scivolano. Sarà la tua benedizione.»

Cru posò il muso sulle scarpe, dichiarandone la sacralità. A mezzanotte il freddo tagliò netto; il cielo, un pozzo colmo di diamanti.

Tappa 6 — Santa Caterina → Wadi Watir → Nuweiba (Golfo di Aqaba)

110 km in tre giorni, canyon colorati, discesa verso il mare.

Il Colored Canyon era una gola dipinta: strisce ocra, vinaccia, malva. Cru camminava elegante sui lastroni, Boruma correva con passi corti, sentendosi parte della tribù: i nomadi, i pellegrini, i maratoneti senza medaglie. Alla vista del Golfo di Aqaba, l’azzurro li colpì come una benedizione. Si bagnarono fino alle ginocchia, senza dire nulla.

Tappa 7 — Nuweiba → Taba (confine)

70 km, costa frastagliata, fortezza di Salah al-Din all’orizzonte.

A nord, un’isola con una fortezza antica (l’Isola del Faraone) perforava l’acqua come un ricordo. “Dove il granito tocca il mare.” Le parole dei Custodi tornavano come un eco.

L’oasi e Rosy

La trovò tra gli acacie e il rumore di una pompa a energia solare: un’oasi discreta, capanni di canne, una tenda per la scuola, taniche blu allineate come soldati gentili. L’odore era di menta, iuta bagnata e pane caldo.

Rosy apparve con un secchio in mano e un foulard color sabbia. Bellissima, ma senza compiacimento: la bellezza di chi ha scelto di servire. Occhi di ambra scura, un portamento da danzatrice che aveva dimenticato il palcoscenico per abbracciare il mondo.

«Acqua?»

«Sì, ma in ordine di importanza: Cru, poi i bambini, poi io.»

«Comandi impartiti con grazia,» sorrise lei. «Mi chiamo Rosy.»

«Boruma. E lui è il mio ambasciatore a quattro zampe.»

Bevvero. Cru si sdraiò all’ombra, felice come un ministro in pensione.

Un ragazzino arrivò piangendo, la tibia graffiata da una lamiera. Boruma si chinò senza pensarci: lavaggio, valutazione, sutura adesiva improvvisata con strisce di cerotto e colla di cianoacrilato (la piccola farmacia di Rosy era un miracolo).

«Come ti chiami?»

«Omar.»

«Omar, hai due opzioni: piangere come un leone o ridere come un fiume. Io preferisco il fiume, bagna di più.»

Omar rise tra i singhiozzi. Rosy osservava, in silenzio.

«Laurea in pedagogia?» chiese Boruma, notando i cartelli appesi: giochi cooperativi, alfabeti intrecciati, filastrocche in arabo e italiano.

«Padova. Papà cattolico di Bari, mamma palestinese di Gaza. Ho imparato che la fede è un ponte quando non diventa muro.»

«Confermo,» disse Boruma. «I muri fanno venire fiato corto ai corridori e alle anime.»

Lei lo studiò per un istante, con una gentile inflessibilità: «Di te mi hanno parlato. La scuola nella sabbia, il cane diplomatico, la testardaggine poetica.»

«Mi fermo al “testardo”. Il “poeta” è colpa di mia nonna.»

«La colpa migliore del mondo.»

Si misero a lavorare insieme: bendaggi, inventario dei farmaci, una lezione improvvisata su “come lavare le mani con poca acqua”. Rosy parlava ai bambini come una sorella maggiore; non alzava mai la voce, eppure tutti la seguivano. Boruma la guardò due volte di troppo e si rimproverò in silenzio. Shelley era ancora la sua casa. Rosy era un faro sul mare: lo guidava, non lo pretendeva.

A sera, con il mare che faceva vetro e l’aria profumata di coriandolo, Rosy gli indicò l’orizzonte: una macchia scura sull’acqua, la fortezza sull’Isola del Faraone.

«I Custodi mi hanno scritto,» disse piano. «Cercate qualcosa che chiamano Il Sigillo del Giardino. Dicono che sia una lamina di rame e oro con tre incisioni: ebraico, arabo e greco. Senza quello, l’affresco che avete trovato resta muto. Con quello… canta.»

«Perché qui?»

«Perché qui le frontiere si toccano e si feriscono. È il posto perfetto per nascondere una chiave di pace.»

Boruma tacque. Il training autogeno tornò come una marea: fronte fresca, cuore caldo, pensiero chiaro. Vide per un istante Shelley seduta sul muretto di Sorrento: “Vai dove l’amore manca. E riempilo.” Sentì anche la mano ruvida di nonna Concetta sulle scarpette: “Corri, ma ricordati di restare.”

«Domani all’alba,» disse Rosy, «un beduino fidato può portarvi vicino all’isola con una barca senza luci. Ma non siete i soli a cercare. Stasera hanno fatto domande. Uomini scuri, occhi di vetro.»

Boruma guardò Cru. Il cane non ringhiò: fissò soltanto il mare, come se lo stesse misurando.

«Va bene.» Boruma si alzò, sentì le scarpette stringergli il piede come due mani buone. «Domattina corriamo sull’acqua.»

«Camminate,» lo corregse Rosy, divertita.

«Ho un problema con i verbi modesti.»

Lei abbassò lo sguardo, nascondendo un sorriso. «Attento, Boruma. La leggerezza salva, ma la vanità inciampa.»

«Mia nonna ha appena applaudito.»

Risero piano. Sull’ultima risata cadde un’ombra: due scie scure tagliavano il golfo, barche senza fanali, verso l’isola.

Rosy si fece seria. «Non siete i primi, stanotte.»

«Non saremo gli ultimi, domani.»

Boruma posò la mano sul capo di Cru. Il Sigillo del Giardino era là fuori, tra granito e sale. Le scarpette di nonna Concetta gli tenevano il passo, la memoria di Shelley gli teneva il cuore, e la voce dei Custodi, da qualche parte, gli teneva la rotta.

Il vento girò dal deserto al mare.

La corsa — quella vera — stava per cominciare.

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