L’alba filtrava lenta, dorata, tra le acacie dell’oasi. Boruma si chinò a stringere i lacci delle scarpette color crema: gli parve di sentire il profumo di bucato di nonna Concetta, il fruscio delle sue mani infarinante, il suono delle preghiere mormorate la sera. Non erano solo scarpe: erano un ponte, un ricordo che camminava con lui.

«Nonna,» sussurrò, «oggi continuiamo la corsa insieme.»
Cru si stiracchiò, poi posò il muso sulle scarpe, quasi a benedire quel gesto. Boruma sorrise: «E tu sei geloso, eh? Non preoccuparti, sarai sempre il primo della lista.»
L’amore che provava per l’Akita non aveva bisogno di parole. Era la prova silenziosa che, a differenza degli uomini che aveva amato e perso, Cru restava. Non sarebbe partito per un lavoro lontano, non sarebbe morto di un male incurabile, non lo avrebbe lasciato. Cru era lì, con i suoi occhi color ambra che non giudicavano e non tradivano.
La partenza dall’oasi
Rosy li attendeva vicino alla tenda-scuola, un fascio di pergamene e farmaci sotto il braccio. La luce del mattino le disegnava il volto con tratti decisi: una donna che aveva scelto di vivere per gli altri.
«Il beduino è pronto,» disse indicando un uomo alto, con il kefiah rosso annodato sulla fronte. «Vi porterà fino al margine del golfo. Da lì… l’isola è un respiro, ma anche una trappola.»
Boruma annuì. Non aveva bisogno di altro. Bevve un sorso d’acqua, poi si rivolse a lei:
«Rosy, tu come riesci a restare qui? Ogni giorno polvere, bombe, orfani…»
Lei lo guardò senza esitare: «Resto perché loro non possono scegliere di andarsene. Io sì. E scelgo di restare.»
Quella risposta gli trafisse il petto. Quanta somiglianza con Shelley. Non nella voce, non nello sguardo, ma nella dedizione che non chiede nulla in cambio. Per un istante Boruma sentì il cuore vacillare. Poi lo serrò: Shelley era ancora casa, Rosy era un faro. Non doveva confondere la direzione.
La traversata
La barca era un guscio di legno scuro, senza luci, che scivolava silenziosa sull’acqua. Il Golfo di Aqaba si apriva come una lama d’argento.
Cru sedeva tra Boruma e Rosy, lo sguardo fisso sull’orizzonte. Ogni tanto abbaiava piano, come se contasse i metri che li separavano dall’isola.
Boruma chiuse gli occhi e si immerse nel training autogeno: «Il corpo è pesante, la fronte è fresca, il respiro è ampio.» Le immagini scorrevano: la cucina di Sorrento con la nonna, i corridoi degli ospedali di Como, i Natali passati da solo ricordando la voce della madre, le corse disperate dopo la morte di Shelley. Tutto era lì, dentro di lui, pronto a trasformarsi in forza. Gli oggetti, le memorie, erano i suoi talismani.
«A cosa pensi?» chiese Rosy, interrompendo il silenzio.
Boruma aprì gli occhi. «Agli oggetti che mi tengono in vita. Le mie scarpe, un vecchio quaderno, un bracciale di stoffa. Non hanno valore per il mondo, ma per me sono ponti. Senza quei ponti, cadrei.»
Rosy sorrise piano. «Allora custodisci bene i tuoi ponti, Boruma. I bambini hanno bisogno di qualcuno che sappia attraversarli.»
L’isola
La barca toccò riva. L’Isola del Faraone si alzava davanti a loro, con la fortezza di Salah al-Din che dominava la scogliera. Pietre di granito scuro, mura medievali, un’eco di battaglie dimenticate.
Appena misero piede a terra, Boruma sentì un brivido: non era solo.
Le barche viste la notte precedente avevano già lasciato tracce. Passi nella sabbia, corde sfilacciate, resti di torce.
«Non siete i primi, ve l’avevo detto,» mormorò Rosy.
Cru abbaiò forte, puntando le orecchie verso una rampa laterale. Boruma annuì: «Andiamo.»
Salendo, notò incisioni antiche sui muri: simboli intrecciati, lettere in arabo, greco ed ebraico. Tutto convergeva verso un’arcata centrale. Lì, incastonata tra le pietre, brillava una lamina: rame e oro, con tre incisioni perfette.
Il Sigillo del Giardino.
Boruma si avvicinò con il cuore in tumulto. Allungò la mano. In quell’istante, un rumore secco lo fermò: il clic metallico di un’arma caricata.
Dall’ombra di una torre, una voce spezzò l’aria:
«Il Sigillo non appartiene a chi sogna. Appartiene a chi governa.»
Boruma si voltò. L’uomo con la cicatrice all’occhio sinistro stava lì, il fucile puntato. Dietro di lui, altre sagome armate si muovevano nell’oscurità.
Rosy fece un passo avanti, lo sguardo fermo. «Non governerete mai ciò che nasce dall’amore.»
Il vento si alzò, portando odore di sale e di ferro.
La corsa di Boruma non era più solo sulle strade del Sinai. Ora correva sul filo sottile tra vita e morte, tra verità e potere.
E il Sigillo brillava, come se volesse scegliere da sé a chi appartenere.
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