Il Golfo di Aqaba si stendeva davanti a lui come una lama di vetro liquido, incisa di luce lunare. Boruma, con Cru al fianco, annodava ancora una volta i lacci delle scarpette della nonna, quelle che ormai non erano più un semplice oggetto ma un sacramento: ogni passo che compiva era anche un passo di Concetta, la voce buona che gli aveva insegnato a guardare le persone e non le apparenze.
Rosy li aveva accompagnati fino alla riva, dove un vecchio beduino stava preparando una barca senza luci. Il suo volto, scavato dal sole e dal tempo, era una mappa di rughe che sembravano dune in miniatura.
«Stanotte il mare tace,» disse l’uomo, «ma il silenzio inganna. Là fuori ci sono occhi che non dormono mai.»
Boruma annuì. Non era la prima volta che affrontava occhi ostili, ma il mare di notte aveva un potere diverso: non offriva vie di fuga, solo profondità.
Prima di salire, Rosy gli prese il polso.
«Non cercare solo il Sigillo,» disse, «cerca anche te stesso. A volte le reliquie più grandi non sono quelle scolpite nel metallo, ma quelle che porti dentro.»
Boruma sorrise con quella sua ironia che serviva a non lasciar trasparire l’angoscia.
«Se dentro di me c’è una reliquia, spero non sia difettosa.»
Rosy rise, ma i suoi occhi si fecero seri. Cru, invece, si limitò a posare il muso contro la mano di lei, quasi a suggellare un patto silenzioso.
La traversata
La barca scivolò sull’acqua senza rumore. Solo i remi che tagliavano la superficie facevano nascere piccoli cerchi argentei. Boruma teneva gli occhi fissi al cielo: il manto di stelle era così fitto da sembrare una biblioteca di luce. Ogni stella, un libro che raccontava una storia, un amore, una guerra.
Si impose il suo training autogeno: il corpo è leggero, il respiro profondo, il pensiero limpido. Le visioni arrivarono subito: vedeva un mondo non più schiavo della globalizzazione, uomini e donne che non inseguivano merci o algoritmi, ma relazioni e silenzi. Vedeva bambini che giocavano senza schermi, vecchi che insegnavano ancora i mestieri delle mani. Poi, all’improvviso, un’ombra: un mercato di schiavi moderni, corpi piegati davanti a monitor, occhi spenti da troppi desideri indotti.
Scosse il capo. Shelley gli aveva insegnato a distinguere l’illusione dal sogno. Non doveva confondere i due.
L’inganno
A metà traversata, una barca emerse dal buio, silenziosa, senza remi né vele. Un motore elettrico ronzava basso come un insetto. Tre uomini vestiti di nero, senza insegne, apparvero a prua.
«Boruma,» disse uno, la voce calma, «non sei obbligato a continuare. Il Sigillo non è ciò che credi. Non porta unità, ma discordia. È troppo potente per il mondo di oggi.»
Boruma li fissò. «E allora perché volete nasconderlo?»
Un altro parlò, con tono di docente severo: «Perché la gente non è pronta. Dare al popolo la verità è come mettere una spada in mano a un bambino. Si taglieranno da soli.»
Boruma rise, ma senza gioia. «Ho curato bambini che hanno imparato a scrivere con pezzi di carbone e a ridere con un cane zoppo. Non sono loro a non essere pronti: siamo noi adulti che li tradiamo ogni giorno.»
Cru ringhiò, basso, controllato, pronto a saltare se Boruma lo avesse voluto. Ma Boruma si limitò ad alzare la mano, fermo.
«Se il Sigillo divide, che divida. Se unisce, che unisca. Non tocca a voi decidere quanto amore il mondo può sopportare.»
Gli uomini si scambiarono uno sguardo, poi svanirono nel buio, come fantasmi.
Le figure del confine
All’alba, quando il primo chiarore tingeva l’acqua di rosa, la barca approdò vicino a un piccolo promontorio roccioso, da cui si vedeva l’Isola del Faraone con la sua fortezza medievale. Lì, seduto su una pietra, Boruma trovò un vecchio pescatore che fumava lentamente da una pipa di legno.
«Stai correndo per arrivare dove?» chiese l’uomo senza voltarsi.
«Corro perché il mondo non mi aspetta. E perché fermarmi fa più male che andare avanti.»
Il pescatore sorrise. «Allora sei come i pesci del mare. Sempre in fuga da reti invisibili.»
Boruma sospirò. «Le reti sono la globalizzazione, amico mio. Ci hanno fatto credere che libertà significhi scegliere tra cento modelli di scarpe, e non tra cento modi di vivere.»
L’uomo lo guardò per la prima volta. «Eppure porti scarpe ai piedi.»
Boruma abbassò lo sguardo sulle scarpette della nonna. «Queste non sono scarpe. Sono ricordi che camminano.»
Il pescatore annuì. «Allora vai. Ma ricorda: chi porta con sé i morti non deve mai smettere di parlare con i vivi.»
Verso l’isola
Cru avanzava deciso sulla scogliera, il vento gli faceva vibrare le orecchie come bandiere. L’Isola del Faraone era ormai lì, a un passo. Boruma sentiva il cuore battere forte, non di paura, ma di attesa.
Eppure, mentre la fortezza si stagliava chiara nel sole nascente, scorse ancora qualcosa: tre sagome nere, immobili sulla riva opposta. La casta non aveva rinunciato.
Boruma si tolse il cappello di tela, asciugò il sudore e sorrise. «Nonna, le tue scarpette tengono bene. Oggi ci tocca correre anche sull’acqua.»
Cru abbaiò una volta, chiaro come un gong.
Il Sigillo del Giardino li attendeva. E con esso, la verità.

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