La luce del mattino filtrava dalle feritoie della fortezza, disegnando lame dorate sulle pietre umide. Boruma si fermò un istante, accarezzando l’orecchio di Cru, che puntava già il muso verso una scalinata in ombra.
«Lo sapevo,» mormorò. «Se c’è un cuore nascosto, dev’essere sotto.»
Cru abbaiò piano, quasi per confermare.
Scese lentamente i primi gradini: erano consumati dal tempo, scavati da piedi che non appartenevano più a nessuno. Ogni passo scricchiolava come se il silenzio stesso protestasse. L’aria si fece più fredda, impregnata di sale e muschio. Boruma inspirò a fondo, applicando il suo training autogeno: il corpo è pesante, la fronte è fresca, il cuore è calmo.
Il corridoio si aprì su una sala bassa, voltata a botte. Le pareti erano graffite di nomi e simboli: stelle di Davide, croci latine, versetti coranici. Non c’era separazione: tutto si intrecciava come se i pellegrini di secoli diversi avessero lasciato qui la stessa preghiera, scritta in lingue diverse.
Boruma passò le dita su una scritta in greco antico:
“L’amore non divide, riconduce.”
«Nonna Concetta avrebbe detto lo stesso, ma in napoletano,» sussurrò con un sorriso.
Cru, invece, si fermò davanti a una grata di ferro arrugginito. Grattò con la zampa. Da dietro arrivava un sussurro di vento, o forse un respiro.
Boruma spinse con forza: la grata cedette con un lamento lungo, e un nuovo corridoio si aprì, scendendo ancora.
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Il sotterraneo successivo era più stretto, quasi claustrofobico. Le pareti erano umide, coperte di alghe verdi che luccicavano alla luce della torcia. Ad ogni passo si sentiva il mare più vicino: il fragore delle onde filtrava come un tamburo lontano.
Sul pavimento, una lastra spezzata riportava un’incisione: una rosa e un cactus intrecciati.
Boruma si inginocchiò, toccandola con le dita.
«Shelley… eri passata anche di qui?»
Non ricevette risposta, ma sentì il cuore stringersi: l’eco della sua voce interiore gli sembrò vicinissimo.
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A metà del corridoio, un’apertura circolare conduceva a una sala più ampia. Al centro, un pozzo secco con mura rivestite di pietre squadrate. Ma non era un semplice pozzo: attorno, dodici nicchie ospitavano altrettante statue mutilate. Figure senza volto, coperte da tuniche, ognuna con un simbolo inciso sul petto: un sole, una mezza luna, una stella a otto punte, una fiamma.
«Gli antichi Custodi,» pensò Boruma. «Dodici come i mesi, come le tribù, come gli apostoli. Dodici modi diversi di dire la stessa cosa.»
Cru abbaiò due volte. Il suo sguardo era fisso sul fondo del pozzo. Boruma si affacciò: non era vuoto. Lì sotto, intravide il bagliore di un metallo.
Un brivido gli percorse la schiena. Il Sigillo del Giardino non era solo una leggenda.
Ma proprio allora, alle sue spalle, un rumore secco spezzò il silenzio.
Un sasso cadde, rotolando.
Boruma si voltò di scatto.
Dall’ombra del corridoio, tre figure vestite di nero emersero lentamente. Non erano pellegrini, né Custodi. Erano uomini della casta, gli stessi che aveva intravisto la notte precedente, occhi di vetro e mani pronte.
Cru ringhiò, basso, come un tuono trattenuto.
«Non siete i primi a scendere qui,» disse uno degli uomini. «Ma sarete gli ultimi.»
Boruma serrò i pugni, il respiro profondo. Le scarpette della nonna aderivano alla pietra come radici. Sentì il fuoco dell’Ombra dentro di sé e la voce calma dei Custodi che gli avevano insegnato: non combattere per odio, ma per amore.
Sapeva che quella sala sotterranea non era solo un luogo: era una prova.
E la vera battaglia, tra luce e tenebra, stava per cominciare.

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