CAPITOLO XXX — L’illusione del Sigillo

I sotterranei della fortezza sembravano chiudersi attorno a Boruma e Cru come un respiro trattenuto da secoli. Le pareti di granito trasudavano umidità, e gocce lente cadevano ritmiche dal soffitto, come il ticchettio di un orologio che non segnava il tempo ma la paura.

In fondo al corridoio, un bagliore dorato. Non era luce naturale, ma una luminescenza viva, che pareva pulsare. Boruma rallentò, posò una mano sulle scarpette della nonna, come a trarne ancora una volta forza. Cru ringhiava piano, il pelo del collo sollevato.

Quando entrarono nella sala, il respiro gli si mozzò.

Al centro, su un piedistallo di pietra, c’era il Sigillo del Giardino: una lamina di rame e oro, intarsiata con tre alfabeti intrecciati — aramaico, ebraico e greco. Ma non era il metallo a rapirlo: era ciò che il Sigillo emanava.

Un profumo familiare, dolce e pungente come il gelsomino di Sorrento. Una voce che scivolò nell’aria, carezzandogli l’anima.

«Boruma…»

Lui si voltò di scatto. E il mondo gli crollò addosso.

Shelley.

Non un’ombra, non un ricordo. Shelley viva. I capelli mossi, gli occhi limpidi come li aveva sognati mille volte, le mani tese verso di lui. Avanzò, e il suono dei suoi passi risuonò come se toccasse davvero la pietra.

«Sono qui. Non ti ho mai lasciato.»

Boruma sentì le ginocchia cedere. La abbracciò, e il calore del suo corpo lo trafisse come una lama di dolcezza. Le lacrime gli scesero senza freno: anni di dolore si scioglievano in quell’attimo.

«Shelley… amore mio… com’è possibile?»

Cru abbaiò furioso. Si mise tra loro, ringhiando come se vedesse qualcosa che Boruma non poteva. Scattò contro l’apparizione e, per un istante, il volto di Shelley vacillò, come riflesso sull’acqua increspata.

Dal buio della sala una voce si levò, lenta, intrisa di veleno:

«Ora comprendi, Boruma? Il Sigillo non custodisce solo memoria. Plasma i desideri più profondi, le paure più segrete. Noi decidiamo quando un uomo deve piangere e quando deve sorridere. Così si governa il mondo: controllando dolore e felicità.»

Boruma si scostò, il cuore in tempesta. Guardava Shelley, e sapeva che ogni dettaglio — il calore, il profumo, persino il tremito delle ciglia — era perfetto. Troppo perfetto.

«Non… non siete Dio,» sussurrò.

«Siamo più di quanto immagini. Senza di noi, gli uomini non sanno vivere. Il Sigillo è la nostra voce, il loro destino. Guarda Shelley. Non vuoi tenerla con te? Non vuoi rinunciare al dolore, al silenzio, alla solitudine?»

Per un istante sentì la tentazione spezzarlo: restare lì, accanto all’illusione, e dimenticare tutto.

Poi abbassò lo sguardo. Le scarpette della nonna, sporche di polvere, lo fissavano come due occhi antichi. Non erano illusione. Erano amore vero, un dono concreto, un ponte tra passato e presente.

Inspirò, alzò lo sguardo e sorrise amaramente.

«Questa non è Shelley. Lei è con Dio, non con voi. Voi avete solo un giocattolo che manipola la carne e la mente, ma non l’anima. L’amore vero non lo potete fabbricare, né distruggere.»

L’apparizione tremò, sgranandosi in filamenti di luce. La voce divenne un grido strozzato e si spense.

Cru abbaiò come un gong. La sala parve risvegliarsi: dalle arcate laterali emersione di tre figure nere, volti coperti, lame corte che rilucevano.

«Peccato,» disse il primo, freddo. «Avevi quasi ceduto. Allora resterai senza il Sigillo.»

Il movimento fu rapido, secco. Un colpo diretto al fianco. Boruma ruotò il busto — memoria del corpo di chi corre — e la lama graffiò la giacca senza trovare carne. Dietro, il secondo uomo calò in diagonale: Cru balzò come una freccia, impattando alle costole, trascinando l’avversario contro il basamento del piedistallo. Un ringhio profondo, controllato. Denti che mordono il cuoio del braccio, non la carne: fermare senza uccidere.

«Brutto errore venire in corsia con i coltelli,» disse Boruma, afferrando il polso del primo. «Io ho passato anni a toglierli dalla gente.»

Torsione, leva sul gomito, polso che cede con un tonfo umido. La lama scivola e picchia sul pavimento. Un ginocchio al quadricipite — il corpo dell’uomo si piega. Boruma arretra, respira: il corpo è pesante, la fronte fresca, il cuore caldo. Training autogeno in piena lotta.

Il terzo assalitore non si lanciò: attese. Voce bassa: «Restituisci il Sigillo e ti lasciamo andare.»

«No, grazie. Già fatto con la dignità quando avevo dodici anni. Da allora ho cambiato politica.»

Un lampo di sarcasmo. Un passo corto. Boruma afferra la torcia a muro, la strappa: scintille, fumo di pece. Ruota il braccio, disegna un arco di fuoco che costringe l’uomo a coprirsi il volto. Cru molla la presa, arretra, si riposiziona al fianco sinistro di Boruma: coppia addestrata dal dolore.

Il primo assalitore prova a rialzarsi: Boruma scivola basso come in fartlek, sposta il peso sulle scarpette leggere e lo falcia con una spinta alla caviglia. Il corpo rotea e abbatte un candelabro di ferro: la sala vibra, un’eco nel granito.

«Tu non combatti,» sputa il secondo, ansimando. «Tu eviti.»

«Già. Lo chiamano vita lunga. Provate.»

Il terzo fa un cenno impercettibile. Dal buio, due ombre nuove. Troppi. Boruma valuta la sala in un colpo d’occhio: quattro aperture, una scala in penombra, il piedistallo al centro. Il Sigillo pulsa — e manca un battito: l’aria cambia, un brivido di pressione. La menzogna vuole reagire.

«Attenti agli occhi,» mormora Boruma a Cru. «Ci proveranno di nuovo.»

La nuova illusione lampeggia: non Shelley, ma Concetta. La nonna, giovane, il grembiule di farina. «Borù, vieni a casa. Hai freddo.»

Il cuore gli si spezza per un millesimo. Poi ride. Una risata pulita, che taglia l’incanto.

«Bravi. Ma avete sbagliato dialetto.»

L’immagine svanisce come vapore. L’uomo con la cicatrice — comparso sull’architrave a sinistra, osservatore — stringe la bocca: «Resiste. Portate via il cane.»

«Provate,» sussurra Boruma. «Vi manca il coraggio o il manuale?»

Due si gettano su Cru: il cane finge di arretrare, poi ruota, abbassa il baricentro e travolge le ginocchia del primo. Boruma intercetta il secondo: braccio, spalla, clavicola contro lo spigolo del piedistallo. Urlo secco. La lama cade e scivola fino alla base del Sigillo. La luce del metallo la respinge di un palmo, come se non volesse essere toccato.

«Interessante,» mormora Boruma. «Neanche lui vi sopporta.»

Il capo scende dall’architrave, lento. Niente lama. Solo una fiala sottile. «Hai riso del dolore. Ma il dolore ha fratelli più sottili.» Rompe la fiala: un vapore dolciastro invade la sala.

Cru tossisce, indietreggia. Boruma sente la mente ammorbidirsi. Ritaglia un respiro profondo, si mette di taglio, tira su la maglietta per filtrare l’aria: fronte fresca, cuore caldo. Il mondo ondeggia. Sui muri si accendono pitture che non c’erano: un matrimonio mai celebrato, una figlia che corre sulla spiaggia, Shelley che invecchia al suo fianco. Paradisi sintetici.

«Questo è il vostro regno,» dice Boruma, barcollando ma dritto. «Una fabbrica di felicità in saldo.»

«La felicità vera distrugge gli imperi,» risponde l’uomo. «La nostra li mantiene saldi.»

Boruma chiude gli occhi. Scova un punto reale: la cucitura ruvida del laccio sulla caviglia. Le scarpette. Respira dentro quella cucitura. Io sono qui.

Quando riapre gli occhi, prende la torcia, la affonda nel vapore. Fiamma. Il gas scoppia in un lampo che non brucia, ma spinge indietro le illusioni come foglie al vento. Gli assalitori arretrano proteggendosi il volto.

«Cru, a me!»

Il cane scatta. Boruma carica di gambe, colpisce di spalla. Il capo urta il muro, perde presa su una seconda fiala: rotola, si frantuma ai piedi del Sigillo. Un lampo amaranto attraversa la lamina; sulle lettere s’incatena una riga di luce: Ἀγάπη — حب — Caritas. Tre parole, una voce.

Il capo sussurra, per la prima volta spaventato: «Non toccarlo!»

«Avevate detto che decideva il destino degli uomini,» ribatte Boruma. «Forse decide anche il vostro.»

L’uomo con la cicatrice non muove un muscolo. I suoi occhi però tradiscono un’altra storia. «Prendilo se vuoi. Pagherai il prezzo che noi abbiamo già pagato.»

«Io ho già pagato,» dice Boruma piano. «Con mia madre, con mia nonna, con Shelley. Il resto è resto.»

Silenzio, come un sipario tirato di colpo.

L’azzardo

Boruma si avvicina al piedistallo. Non lo prende: lo benda. Strappa la sua sciarpa, avvolge la lamina, la spegne alla vista.

«Se il vostro potere è negli occhi, cominciamo col togliere gli occhi.»

Gli uomini arretrano, incerti. Il capo tenta l’ultima arma: «Se esci da qui con quello, le guerre cambieranno nome. Non finiranno.»

«Allora correremo più forte.»

Il passo successivo è un montaggio di coraggio e mestiere: Boruma con il Sigillo bendato al petto, Cru che apre strada con ringhi dosati, due avversari stesi, gli altri che esitano, l’uomo con la cicatrice che non ordina di sparare. L’uscita è la scala in penombra. Tre rampe. Un corridoio che pare stringersi apposta. Il vento sale dal mare come una benedizione tardiva.

Uno degli uomini tenta l’ultimo affondo. Boruma si ferma di colpo — gesto impossibile per chi vive d’inerzia — e quello lo oltrepassa nel vuoto di un passo. Una mano sulla nuca, niente odio, solo direzione: il corpo del nemico continua il volo e abbraccia il pavimento.

«La prossima volta portate un libro,» mormora. «Magari Gandhi, vi alleggerisce la valigia.»

La risata gli muore in gola. In cima alle scale, due nuove sagome. Non della casta. Rosy e un beduino, volti tesi. Rosy regge una lampada schermata.

«È successo quello che temevo,» sussurra. «Abbiamo barche in vista. E… Boruma… dietro di te.»

L’uomo con la cicatrice è a metà rampa. Non ha la lama. Ha gli occhi. E in quegli occhi c’è qualcosa che Boruma non aveva previsto: non odio, non fanatismo. Tristezza.

«Non sono io a inseguirti,» dice piano. «È il Sigillo. Lui sceglie chi brucia.»

Boruma stringe il tessuto attorno alla lamina. Sente il calore farsi vivo, non ostile. Cru si volta, guarda l’uomo, non ringhia.

Per la prima volta, Boruma non sa se correre o restare.

Il mare, fuori, chiama come un tamburo. Nella sala sotto, i coltelli vengono raccolti. L’aria sa di pietra, di sale, di destino.

«Nonna,» sussurra, sfiorando le scarpette, «se devo correre, guida tu la prima falcata.»

Poi guarda Rosy. «Pronti?»

La lampada si spegne con un soffio. Il buio si muove.

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