CAPITOLO XXXI — Il Respiro del Buio

Il buio si muoveva. Non era silenzio, ma un respiro che cambiava ritmo, come se i muri stessi stessero decidendo se stringersi o lasciarli passare. Boruma serrò il Sigillo al petto, avvolto nella stoffa, e il calore che filtrava lo costringeva a restare desto. Eppure, dentro quella penombra, la mente lo tradì con un lampo di memoria.

Shelley.

Non in un’illusione della Casta, ma nel ricordo più vero e disarmante: la prima volta che l’aveva invitata a cena, a casa sua, con un solo obiettivo — sedurla non con parole o regali, ma con la cucina.

Boruma si rivide giovane, i capelli ramati sciolti sul volto, le mani che affondavano nel pomodoro e nell’olio come un sacerdote che prepara un sacramento. Il ragù borbottava lento sul fornello, profumando la casa di domenica mattina. Intanto friggeva crocché e arancini con l’aria concentrata di un artigiano, mentre sul tavolo aspettava già la sfoglia lucida dei babà che avrebbe inzuppato di rhum.

«Cucini come mia nonna!» aveva esclamato Shelley, ridendo, quando lui le servì il piatto.

«No,» rispose Boruma, con un sorriso appena ironico. «Cucino come se mia nonna mi stesse guardando. E lei non perdona mai un ragù acquoso.»

Shelley aveva riso, e in quel riso Boruma aveva visto riflessa la sua infanzia: la madre che dirigeva la cucina come un’orchestra, la nonna Concetta che impartiva i segreti come note, le zie e gli zii che si alternavano tra un piatto e l’altro, i cugini che correvano per la casa aspettando la tavola apparecchiata.

Un mondo di pane caldo, di vino versato, di voci che si intrecciavano senza fretta.

Allora aveva pensato che Shelley fosse il suo déjà-vu, l’inizio di una nuova famiglia, una domenica che ricominciava dopo anni di solitudine.

E invece no. La vita aveva bruciato quel sogno, lasciandogli addosso il silenzio e un cane fedele come unico compagno.

Adesso, nel ventre di pietra della fortezza, con la Casta pronta a colpirlo, Boruma si rese conto di una verità crudele: il desiderio di possedere una sua famiglia, con figli che avrebbero riso intorno a una tavola, si stava affievolendo. Non per mancanza d’amore, ma perché la morte lo aveva convinto che ogni volta che amava, perdeva.

Cru, al suo fianco, gli sfiorò la mano con il muso. Come a dirgli: non sei mai solo, se sai condividere il pane che hai dentro.

Boruma inspirò, e la voce della nonna tornò con la forza di una carezza:

«Ricordati, Borù: il cibo unisce chi non si parlerebbe mai. Anche i nemici abbassano la guardia davanti a un piatto buono.»

Il buio intorno fremette. Le ombre della Casta si muovevano. Ma Boruma, stretto tra ricordi e realtà, si accorse di non avere paura.

Un rumore distante gli fece voltare lo sguardo verso la scalinata alle sue spalle. Per un istante intravide una luce schermata: Rosy e il vecchio beduino lo osservavano dall’alto, immobili, quasi statue. Non intervenivano, non potevano, ma i loro occhi gli ricordarono che non era un uomo abbandonato nel ventre della fortezza. Era parte di una trama più grande, fatta anche di chi, pur restando nell’ombra, vegliava su di lui.

Cru si abbassò, pronto a balzare, ma il suo sguardo non era quello di un animale spaventato: era quello di un compagno che conosce la battaglia. Boruma gli poggiò la mano sulla testa.

«Siamo pronti,» mormorò. «Come a tavola: prima assaggio io, poi tu.»

Le prime sagome comparvero tra le colonne, spettri neri con lame corte. Il Sigillo sotto la sciarpa pulsava, come se volesse reagire. Una voce dal fondo parlò piano, ma tagliente:

«Boruma, il tempo del gioco è finito. Consegna il Sigillo e avrai pace.»

Boruma alzò lo sguardo, la voce bassa e sarcastica:

«La pace servita da voi? No grazie. Preferisco cucinarmela da solo.»

Un passo avanti. L’eco della frase rimbalzò sulle pietre, mischiandosi alle gocce che cadevano. Le figure si scambiarono un cenno e si divisero, due ai lati, uno al centro, come predatori che stringono la preda.

Boruma inspirò, sentendo sotto le dita il laccio ruvido delle scarpette della nonna.

Il corpo è pesante. La fronte è fresca. Il cuore è caldo.

Un passo, poi un altro. Il buio si muoveva, ma non più dentro di lui.

Il primo uomo si lanciò. Boruma scivolò di lato, gesto secco e preciso di chi ha corso mille sprint: prese il polso, torsione, la lama cadde con un tonfo sordo. Il secondo tentò un affondo: Cru balzò, denti sulle protezioni del braccio, spingendolo contro la parete. Un urlo, un colpo di tosse.

Il terzo restò fermo, gli occhi due ferite di luce.

«Pensi di essere forte perché non hai paura. Ma noi possiamo ridartela, quando vogliamo.»

Boruma sorrise appena. «Io non ho paura di avere paura. Ho solo paura di diventare come voi.»

Si mosse di nuovo. La torcia a muro gli cadde in mano come un vecchio mestolo; la roteò davanti al volto dell’ultimo assalitore, costringendolo a coprirsi.

«Il trucco della frittura,» disse piano. «Olio caldo, mani lontane.»

Un lampo improvviso: non Shelley, non Concetta, ma il volto di un bambino — forse uno dei suoi piccoli allievi — apparve nell’aria davanti a lui, proiezione del Sigillo. Un grido muto. Boruma chiuse gli occhi, respirò nella cucitura del laccio.

Il bambino svanì. La realtà tornò netta.

Le lame caddero. Un colpo di vento, freddo, attraversò il corridoio. Dal fondo avanzò una nuova figura: non un soldato, non un assassino. Era l’uomo con la cicatrice, occhi fissi su Boruma, mani vuote.

«Non è ancora finita,» disse piano. «Hai resistito all’illusione, ma il Sigillo non perdona chi lo strappa. Sta scegliendo te.»

Boruma sentì il calore della lamina sotto la sciarpa diventare più intenso, quasi vivo. Non ostile, non benevolo: presente. Come un cuore estraneo che batteva con il suo.

Cru smise di ringhiare. Il silenzio tornò.

Boruma inspirò, poggiò la fronte al muro, poi si voltò verso l’uomo.

«Allora smettiamola con i fantasmi. Parliamo come persone.»

L’uomo fece un passo avanti, la cicatrice che brillava nella luce dorata.

«Se lo vuoi davvero, vieni sotto. Lì capirai perché il Sigillo è stato nascosto.»

Boruma abbassò lo sguardo sulle scarpette, sulle mani sporche di polvere. Sorrise amaramente.

«Sempre sotto. Sempre correre verso il buio. Ma va bene. Scendiamo.»

Dall’alto, la luce schermata di Rosy tremolò, come un incoraggiamento silenzioso.

L’uomo annuì, e per un istante nei suoi occhi c’era la stessa malinconia che Boruma aveva visto in tanti pazienti morenti: la consapevolezza di chi sa che la verità costa più della menzogna.

Boruma fece cenno a Cru.

«Andiamo, ambasciatore.»

E mentre metteva il piede sul primo gradino che portava ai sotterranei ancora più profondi, sentì di nuovo la voce della nonna nella memoria:

“Ricordati, Borù: il cibo unisce, ma il coraggio nutre.”

Il buio si allargò.

La vera discesa stava per cominciare.

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2 risposte a “CAPITOLO XXXI — Il Respiro del Buio”

  1. Avatar knoz alhir

    تمت المتابعة يسعدني ويشرفني متابعتكم

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    1. Avatar boruma1977

      L’ONORE è mio…è prezioso condividere la conoscenza.ARRIVEDERCI

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