L’alba si apriva lenta, come una ferita che smette di sanguinare.
Il mare, dopo la notte di tempesta, respirava piano: onde piccole, stanche, che si scioglievano sulla sabbia come carezze.
Boruma e Cru sedevano vicino alla riva, il Sigillo avvolto ancora nella sciarpa, posato accanto a loro come un cuore che aveva smesso di pulsare.
Rosy arrivò scalza, portando con sé due tazze di caffè nero fumante.
Il vento del mattino le faceva ondeggiare i capelli — lunghi, neri, con riflessi di rame che ricordavano la brace di un fuoco lontano.
Gli occhi color ambra riflettevano la luce del sole nascente, caldi e insieme profondi come se contenessero mille silenzi.
Il corpo atletico, abituato alla fatica e alla cura, si muoveva con una grazia naturale: ogni gesto sembrava una parola non detta.
Quando parlava, le labbra carnose, morbide e precise, sapevano diventare più taglienti di una lama.
Eppure, in quella mattina, c’era solo dolcezza nei suoi lineamenti.
«Hai dormito un po’?», chiese porgendogli una tazza.
«Non abbastanza per dimenticare,» rispose Boruma, «ma abbastanza per ricordare che sono vivo. È già un lusso.»
Rosy sorrise, sedendosi accanto a lui. «Solo tu riesci a trovare ottimismo anche nel disastro.»
«È un vizio di famiglia,» ribatté lui. «Mia nonna diceva che lamentarsi non asciuga il bucato.»
Lei rise piano, e quella risata sembrò aprire il cielo sopra di loro.
Cru, steso con la testa sulla sabbia, alzò un orecchio e sbadigliò rumorosamente, come a sottolineare la verità di quella scena.
«Sai,» disse Rosy dopo un po’, guardando l’orizzonte, «quando ho deciso di restare all’oasi, pensavo di aver chiuso con tutto. Con l’amore, con le illusioni, con la speranza. Poi ho capito che i bambini non ti permettono di restare chiusa troppo a lungo. Ti costringono a respirare, a sorridere, anche quando dentro sei piena di crepe.»
Boruma la osservò in silenzio.
In lei vedeva una forza che non aveva bisogno di parole, una fede concreta, la stessa che aveva sempre cercato nei volti dei pazienti, nei colleghi, nei suoi viaggi.
Eppure, nel suo sguardo, notava anche la stessa malinconia che lo abitava: quella degli esseri umani che hanno visto troppo dolore, ma hanno scelto di non farsene divorare.
«Siamo due testardi,» disse infine. «Tu curi i bambini con la pazienza, io con la corsa. È la stessa medicina: muovere l’amore finché non si ferma.»
Rosy lo fissò, con un’espressione che mescolava dolcezza e sfida. «E quando si ferma?»
Boruma rise, guardando il mare.
«Allora lo si spinge di nuovo. Io non credo al pessimismo. Leopardi vedeva il dolore e ci scriveva sopra poesie bellissime, ma poi restava fermo a guardarlo. Io corro, invece. Non per scappare, ma per capire se c’è una curva dopo il dolore. Finora, c’è sempre stata.»
Rosy rimase in silenzio. Il vento le accarezzò i capelli, e per un attimo Boruma la vide come l’aveva descritta la prima volta nella mente: una donna che non aveva bisogno di essere salvata, ma di essere capita.
Lui, invece, era solo un uomo che cercava di non smettere mai di credere.
Cru si alzò, annusando l’aria.
Il mare portava un odore nuovo, di alghe e ferro. Forse presagio, forse promessa.
Rosy gli poggiò una mano sul braccio. «Sai, Boruma… c’è un posto, tra le rocce dietro l’oasi, dove l’acqua canta. I beduini dicono che chi ascolta quella voce trova la propria direzione. Forse dovresti andarci, prima di ripartire.»
Boruma la guardò, serio ma con quel sorriso che illuminava tutto.
«Forse sì. O forse ci andremo insieme.»
Lei lo guardò, sorpresa, poi rise piano, scuotendo la testa. «Sai che sei un caso disperato, vero?»
«Lo so,» rispose lui. «Ma sono un caso che sa cucinare.»
Risero entrambi. E per la prima volta, dopo tanto tempo, il mare non sembrò un confine — ma una promessa.
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Più tardi, quando il sole era già alto e il caffè finito, Rosy si lasciò andare, parlando con voce lenta, quasi ipnotica, come se stesse raccontando un sogno.
«Mia madre era palestinese, cresciuta a Khan Yunis. Mio padre un cattolico di Catania arrivato lì con una missione umanitaria. Si sono amati in silenzio, contro tutto. Quando lei rimase incinta, la sua famiglia la rinnegò. Eppure, papà non si arrese: la portò con sé in Italia, le insegnò l’italiano e lei gli insegnò il Corano. In casa nostra, Gesù e Maometto condividevano la stessa mensola. Non litigavano mai.»
Boruma sorrise, intenerito.
«Una casa con due profeti. Dev’essere stata allegra.»
Rosy annuì, ma i suoi occhi si fecero lucidi. «Lo è stata, per un po’. Poi la guerra si prese mia madre, e papà morì pochi anni dopo di crepacuore. Da allora, ho deciso che se dovevo restare in questo mondo, almeno volevo farlo costruendo qualcosa. I bambini dell’oasi… sono la mia redenzione.»
Boruma rimase in silenzio, lasciando che le sue parole si sciogliessero nel vento.
Capì che quella donna non era solo forza o bellezza: era una ferita che aveva scelto di diventare faro.
«Sai,» disse piano, «non credo esistano persone che nascono buone. Esistono persone che scelgono ogni giorno di non diventare cattive. Tu sei una di quelle.»
Rosy lo guardò a lungo, senza rispondere. Poi si voltò verso il mare.
«E tu sei un uomo che continua a correre anche quando il mondo ti dice di fermarti. Forse è per questo che il Sigillo ti ha scelto. Non perché sei puro, ma perché sei vivo.»
Boruma rise piano.
«Allora non ho corso invano.»
Il sole si rifletteva sull’acqua come una moneta d’oro.
Cru abbaiò una sola volta, come per sancire quell’accordo silenzioso.
E in quell’istante, Rosy e Boruma capirono che non sempre l’amore si misura con i baci o le promesse, ma con la capacità di restare accanto al silenzio dell’altro, senza paura.
Il mare continuò a cantare.
E per la prima volta, quel canto non era più del Sigillo.
Era dell’uomo che aveva scelto di non smettere mai di sperare.

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