La notte era scesa su Alessandria senza fretta, come un velo sottile che non voleva coprire, ma solo attenuare.
Il mare, poco distante, non urlava: mormorava. Un suono grave, profondo, che sembrava salire dal fondale più che dalla superficie.
Boruma camminava in un dedalo di viuzze strette, lontano dalla Corniche e dai caffè illuminati. Qui la città cambiava voce: niente clacson, niente insegne al neon. Solo passi, voci basse, qualche risata dietro una porta socchiusa, il tintinnio di cucchiai e bicchieri.
Cru gli stava accanto, senza tirare il guinzaglio. Ogni tanto annusava un angolo, poi tornava al suo fianco, come se sapesse benissimo che quella notte non si trattava di esplorare, ma di trovare.
Sotto la sciarpa, il Sigillo pulsava.
Non bruciava, non faceva male. Ma il metallo emanava un calore diverso dal solito, come se “sentisse” di essere vicino a qualcosa. Ogni tanto la stoffa vibrava appena, con piccolissimi colpi, come il cuore di un uccellino tra le mani.
«Lo so,» mormorò Boruma, sfiorando il petto. «Non sei un soprammobile.»
Svoltò in un vicolo più buio degli altri.
All’inizio non vide nulla, poi gli occhi si abituarono: una porta di legno chiaro, più bassa delle altre, con una targa di ottone consumata. Sopra, in tre lingue — arabo, greco e francese — una scritta:
“Biblioteca dei Mari”
Boruma sorrise tra sé. «Eccoci.»
Cru si sedette davanti alla porta, senza ringhiare, come se approvasse la scelta.
Boruma bussò tre volte. Il legno restituì un suono pieno, quasi caldo.
Dall’interno una voce rauca, ironica, disse:
«Se cercate un posto per nascondervi, siete in ritardo. Se cercate un posto per capire, siete in anticipo.»
La porta si aprì.
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L’uomo che li accolse sembrava scolpito nella carta più che nella carne.
Era magro, con la pelle color sabbia antica e gli occhi chiari, leggermente velati da una cataratta che non aveva spento completamente la luce. I capelli, bianchi come farina, erano tirati all’indietro. Indossava una camicia di lino, un gilet logoro e pantaloni stirati con una cura che sapeva di altre epoche.
«Avanti, avanti. I cani che amano i libri sono sempre benvenuti.»
Si chinò verso Cru, che lo annusò e lo accettò come se lo conoscesse da anni.
«Lei dev’essere Boruma,» aggiunse. «O il mondo ha improvvisamente prodotto un secondo pazzo che gira con un Sigillo al petto e un Akita al seguito.»
Boruma restò un attimo sospeso. «Mi consenta,» disse, con quel suo sorriso leggero, «ma di solito mi presento prima di essere insultato.»
L’uomo rise piano. «Se la prenda con mio padre. E con mio nonno. Siamo bibliotecari di professione e impertinenti per tradizione. Io sono Nadir ibn Youssef. Mio nonno custodiva pergamene nel quartiere greco, mio padre nella biblioteca copta. Io…» aprì le braccia. «Io faccio quel che posso tra queste quattro mura e un po’ di polvere.»
Lo fece entrare.
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Dentro, la biblioteca era un universo.
Scaffali fino al soffitto, libri rilegati e fascicoli spillati, rotoli di carta e pergamene, mappe appese con mollette di legno. L’odore era quello che Boruma amava: carta vecchia, inchiostro, un vago sentore di cera e spezie.
«Attento a quel gradino,» indicò Nadir. «È più vecchio di te e si offende se lo calpesti senza avvisare.»
Cru girava tra le file di scaffali con passo rispettoso, come se stesse attraversando un cimitero buono: il luogo dove i morti parlano ancora, perché qualcuno ha scritto le loro voci.
Nadir chiuse la porta, tirò un chiavistello, poi si voltò verso Boruma, e la sua ironia si fece più sottile.
«Mostramelo.»
Boruma non chiese “cosa”.
Scostò pianissimo la sciarpa, aprì il tessuto, lasciando che un frammento del Sigillo si mostrasse alla luce gialla delle lampade.
La lamina di rame e oro brillò. Le lettere incise — aramaico, ebraico, greco — sembrarono vibrare appena.
Nadir restò in silenzio.
Non lo toccò. Non si avvicinò troppo. Semplicemente chinò il capo, come si fa davanti a un altare.
«Da tre generazioni aspettiamo il ritorno di quel metallo,» disse piano. «Mio nonno diceva: “un giorno il Giardino manderà un corridore col cuore troppo grande”. Io ho sempre sperato che arrivasse nell’orario d’apertura, almeno.»
Boruma sorrise. «Beh, il cuore c’è. Sulla grandezza… dipende da chi lo misura.»
«Dio non usa centimetri,» ribatté Nadir. «Usa ferite.»
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Sedettero a un tavolo grande, macchiato d’inchiostro e di tempo.
Nadir accese una seconda lampada a olio. La fiamma disegnò ombre mobili sulle pareti, mettendo in risalto alcuni oggetti:
– una piccola icona copta in cui un uomo senza aureola abbracciava un ebreo e un beduino;
– una miniatura persiana che ritraeva un giardino con tre alberi diversi intrecciati fra loro;
– un mosaico frammentario con una rosa e un cactus che spuntavano dallo stesso vaso.
«Famiglia di ossessionati,» commentò Nadir, seguendo lo sguardo di Boruma. «Mio nonno raccoglieva tutto ciò che parlava di amore universale. Mio padre catalogava. Io…» alzò le spalle. «Io cerco di capire se eravamo dei santi o dei cretini.»
«Probabilmente entrambe le cose,» disse Boruma. «Succede ai migliori.»
Nadir rise, e nei suoi occhi velati comparve un lampo di giovinezza.
«Ascolta, Boruma. Ciò che hai al petto non è un amuleto. È un dispositivo di risonanza. Non è magico: è terribilmente umano.»
«Traduzione,» sospirò Boruma. «Parla napoletano, se puoi.»
Nadir si aggiustò gli occhiali invisibili, per pura abitudine.
«Il Sigillo del Giardino nacque secoli fa, quando un gruppo di sapienti— rabbini, frati, sufi, filosofi senza patria—decisero che la parola “Dio” era diventata una scusa perfetta per farsi la guerra. Allora crearono un patto inciso nel metallo. Un patto che tutte le tradizioni potessero riconoscere.»
Indicò il Sigillo.
«Tre lingue incise: aramaico, ebraico, greco. Ma quando l’amore è vero, se guardi bene, se la luce è quella giusta…» si avvicinò appena, socchiudendo gli occhi. «…vedi affiorare anche l’arabo. Non inciso, ma riflesso. È la quarta eco.»
Boruma si sporse. Per un attimo, in una vibrazione minima, credette di scorgere davvero una parola in più, come un’ombra luminosa: رحمة – rahma, misericordia.
«Il Sigillo non crea nulla,» continuò Nadir. «Amplifica ciò che trova. Se lo metti in un luogo dove le persone pregano con sincerità, fa crescere compassione, giustizia, perdono. Se lo metti nelle mani di chi ha paura o sete di potere… amplifica il controllo, la manipolazione, la menzogna. È uno specchio con il volume al massimo.»
Boruma deglutì. «E la Casta?»
Nadir sospirò, inclinando la lampada per illuminare un vecchio foglio appeso alla parete: un disegno schematico del Sigillo con attorno figure stilizzate, come fossero fili.
«La Casta ha scoperto ciò che i sapienti antichi avevano solo intuito: che il Sigillo reagisce non solo alle persone vicine, ma alle reti. Ai collegamenti. Per secoli fu usato nei luoghi sacri, nelle assemblee, nei giardini nascosti, per alimentare concordia. Poi qualcuno capì che si poteva collegare, metaforicamente, alle nuove reti: finanza, media, flussi di dati, mercati.»
Si voltò verso Boruma.
«Se controlli il dolore e la felicità di un popolo, non hai bisogno di carri armati. Ti basta decidere quali sogni vendere e quali paure nutrire. Fu così che il Sigillo — o almeno una parte della sua conoscenza — venne usato per piegare i paesi più fragili. Ogni crisi economica, ogni guerra “necessaria”, ogni prodotto che promette felicità pronta all’uso… sono piccole corde attaccate a quel metallo, o all’idea che rappresenta.»
Boruma si appoggiò allo schienale. «Quindi tutto questo… è anche colpa vostra.»
Nadir sorrise con amara ironia. «Tranquillo, la responsabilità è ben distribuita. Come il debito pubblico. I nostri antenati hanno creato un violino meraviglioso. Gli idioti hanno deciso di usarlo per accompagnare i bombardamenti.»
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Boruma restò qualche istante in silenzio.
Pensò ai bambini di Gaza che giocavano con Cru nell’oasi di Rosy.
Pensò a Rosy stessa: ai suoi occhi ambra, alla fermezza con cui riusciva a contenere il dolore altrui senza farsene travolgere, al modo in cui prendeva in braccio un bambino che tremava e lo trasformava in un corpo che ride.
Le parole di Nadir gli rimbalzavano dentro: “Il Sigillo amplifica ciò che trova.”
E se Rosy fosse uno di quei punti nel mondo in cui, senza saperlo, il Sigillo respirava meglio?
Se la sua scelta di dedicarsi ai bambini orfani, al confine fra Israele ed Egitto, fosse una risposta silenziosa alla violenza, alla manipolazione, al cinismo che la Casta seminava?
Si rese conto che, da quando si erano separati, tornava a pensare a lei in momenti sempre più strani: tra una corsa e un tramonto, tra un bendaggio e un sogno.
Non la vedeva come un sostituto di Shelley — quella ferita era unica — ma come una possibile strada nuova.
Il problema non era lei. Era lui.
Aveva paura che amare significasse perdere di nuovo.
Nadir lo fissò, come se gli avesse letto il pensiero.
«Sai qual è la trappola più grande della Casta, Boruma? Non il Sigillo. È la rassegnazione. Convincerci che l’amore è un lusso per tempi di pace. Che prima bisogna sistemare il mondo e poi, forse, si potrà essere felici. È il contrario. Solo chi ama davvero può cambiare qualcosa.»
Boruma abbozzò un sorriso stanco. «Lei per caso era presente quando hanno redatto il catechismo universale?»
«No,» ribatté Nadir, «ma ho letto molti pazzi lucidi. E tu mi sembri uno di loro.»
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Si alzò con calma, andò verso uno scaffale basso e prese una scatola di legno. La aprì. Dentro, alcune fotografie in bianco e nero, un paio di fogli scritti a mano, e una piccola tavoletta d’argilla incisa.
La poggiò sul tavolo.
«Questa,» disse, «è una copia di un reperto trovato vicino al Sinai, molti anni fa. L’originale è sparito. Forse distrutto, forse nascosto. Parla del Giardino delle Tre Lingue.»
Boruma avvicinò il volto.
Le incisioni raffiguravano tre uomini seduti sotto lo stesso albero: uno con il tallit ebraico, uno con una croce semplice al collo, uno con un turbante sobrio. Nessuno sembrava più importante.
Sopra di loro, un’iscrizione in un alfabeto misto, quasi impossibile da decifrare.
Nadir la tradusse con calma:
«“Verrà un tempo in cui le nazioni avranno automobili e cannoni che correranno più veloci di ogni cavallo, ma il loro cuore andrà più lentamente di un vecchio. Allora il Sigillo dovrà essere portato non nei palazzi, ma nelle mani di chi non desidera trono. Solo così la società diventerà davvero globale: non nei mercati, ma nella misericordia.”»
«Un profeta?» chiese Boruma.
«Un folle anonimo,» rispose Nadir. «Che, come tutti i folli anonimi, aveva capito molto più dei ministeri degli esteri.»
Si sedette di nuovo.
«Tu non devi usare il Sigillo. Devi portarlo. Devi lasciare che ti metta alla prova. Se il tuo cuore resta libero dall’avidità, lui parlerà. Non con grandi magie, ma con piccole coincidenze che cambiano i passi degli uomini.»
Boruma si toccò il petto. «E se non ce la faccio?»
Nadir si strinse nelle spalle. «Allora farà come ha sempre fatto. Ti brucerà le illusioni finché non resterà solo ciò che è vero. È un pessimo compagno di viaggio per chi ama le menzogne, ma un buon alleato per chi vuole diventare intero.»
Cru, ai piedi del tavolo, emise un sospiro che sembrò d’accordo.
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«Una cosa ancora,» disse Boruma. «Mio nonno… mi ha insegnato che la conoscenza non è mai gratis. Lei cosa ci guadagna ad aiutarmi?»
Nadir sorrise di lato.
«Moltissimo. Primo: finalmente posso giustificare tutti gli anni passati a leggere libri che nessuno voleva. Secondo: se la Casta mi scopre, magari mi risparmia la casa di riposo e mi manda direttamente in prigione. Più silenzio, più tempo per mettere in ordine il catalogo. Un sogno.»
Boruma scoppiò a ridere. Una risata vera, che sciolse per un attimo la tensione.
«E terzo,» aggiunse Nadir, «mio padre diceva sempre: “se un giorno arriva qualcuno capace di portare il Sigillo senza volerlo possedere, aiutalo. È la nostra unica eredità decente al mondo.” Non ho eredi. Ti tocca.»
«Che fortuna,» mormorò Boruma. «Essere adottato da una biblioteca.»
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Quando uscì, la notte era diventata più densa.
Il rumore della città sembrava lontano. Il mare, invece, si era avvicinato: il suo respiro si sentiva anche tra i vicoli.
Boruma si fermò a pochi metri dalla porta.
Sotto la sciarpa, il Sigillo era stranamente… tranquillo. Come se avesse ascoltato e, per il momento, approvato.
«Ambasciatore,» disse a Cru, «pare che abbiamo un lavoro ingrato: portare in giro un pezzo di metallo che guarda dentro l’anima del mondo e amplifica quello che trova.»
Cru lo fissò, inclinò la testa e sbadigliò.
«Giusto,» aggiunse Boruma. «E in più devo capire se ho il diritto di amare ancora qualcuno.»
Gli tornò alla mente l’immagine di Rosy che, nell’oasi, si chinava su un bambino per asciugargli il viso con un gesto lento, come si asciuga una reliquia.
Le sue mani salde, le labbra che parlavano piano, gli occhi che non si voltavano mai davanti al dolore.
“Solo chi ama davvero può cambiare qualcosa.”
Le parole di Nadir gli risuonavano dentro, mischiate a quelle di nonna Concetta, di mamma, di nonno Raffaele, del paziente terminale che diceva che «la vita non va capita ma vissuta».
«Chissà,» mormorò, guardando il cielo sopra Alessandria. «Magari il Sigillo serve a questo: a farci capire quando è ora di smettere di avere paura dell’amore.»
In quel momento, una folata di vento sollevò un velo di sabbia dal selciato e glielo spinse contro il viso.
Boruma chiuse gli occhi, istintivamente.
Quando li riaprì, in fondo al vicolo, una figura in nero li stava osservando. Non si muoveva, non parlava.
Poi, come se fosse fatta d’ombra, si voltò e sparì dietro l’angolo.
Cru ringhiò piano, senza abbaiare.
Boruma posò una mano sul petto, sopra il Sigillo.
Il metallo, per un istante, pulsò forte. Non di paura. Di avvertimento.
«Va bene,» sospirò. «Domani ricominciamo a correre.»
Si voltò un’ultima volta verso la porta della Biblioteca dei Mari.
La luce interna era già spenta.
Nadir, il custode delle sabbie e dei libri, aveva fatto la sua parte.
Ora toccava di nuovo a lui.
E ad Alessandria, città di mare e di ombre antiche, il sigillo dell’amore universale aveva appena ripreso a cantare — ma solo per chi aveva ancora orecchie per ascoltarlo.

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