CAPITOLO XL — Le Note del Deserto

Il vento del deserto non soffia: canta.

Sfiora la sabbia come se le corde di un’arpa fossero state tese per chilometri, e ogni granello vibrasse nella sua nota. Boruma lo sentì non appena lasciò Alessandria alle spalle: una lunga corrente calda che accarezzava la pelle, sollevava la camicia, e muoveva i pensieri come fogli di carta in una stanza aperta.

Luxor era una linea lontana, una promessa più che un luogo.

E la strada per arrivarci sembrava disegnata da una mente antica: un nastro color ambra, contornato da palme solitarie, distese di roccia e miraggi che tremavano nell’aria come fossero fatti di respiro.

Cru correva qualche metro avanti, poi tornava indietro, sfiorando il fianco di Boruma con un tocco gentile. Era il suo modo di dirgli “ci sono”. Il suo modo di rassicurarlo.

Boruma inspirò profondamente.

Al di sopra del canto del deserto… iniziò a sentire un’altra musica.

Quella sua.

Quella che non proveniva da cuffie, telefoni, dispositivi — ma dal cuore, dal ricordo, dal dolore e dalla gioia.

La Playlist Invisibile

C’era stato un tempo in cui la musica gli arrivava alle orecchie attraverso un oggetto che aveva quasi venerato: il suo vecchio walkman.

Un regalo dello zio Armando.

Un uomo elegante come pochi, professore e artista, mani sempre macchiate di grafite, occhi di un azzurro malinconico che sembrava custodire tutte le storie del mondo.

Fu lui a regalarglielo quando Boruma aveva quindici anni.

Era appena morta sua madre, e il mondo, per qualche mese, era diventato muto.

«La musica non cura tutto,» gli aveva detto lo zio, posandogli il walkman sulle ginocchia,

«ma accompagna i dolori troppo grandi per essere spiegati.»

Da quel momento Boruma aveva ascoltato la vita attraverso quel rettangolo di plastica: i Queen, Sting, i Pearl Jam, i U2, i Coldplay, Dolores O’Riordan che sembrava cantare da dentro l’anima stessa.

Quel walkman durò dieci anni.

Dieci anni di corse, viaggi, lacrime, baci, risate, partenze.

Quando smise di funzionare, non fu un oggetto a morire.

Fu un’epoca.

Eppure, da allora, la musica non gli mancò mai.

Perché aveva imparato ad averla dentro.

Una playlist mentale, un’orchestra intima che gli apriva il cuore ad ogni passo.

Quel giorno, nel deserto, mentre correva verso Luxor, gli ritornarono tutte.

“Radio Ga Ga” — Queen

E vide se stesso correre nel bosco di Capodimonte, adolescente, libero, sudato, vivo.

“Fields of Gold” — Sting

E vide sua madre cantare piano davanti ai fornelli, il cucchiaio di legno che diventava una bacchetta da direttrice d’orchestra.

“Alive” — Pearl Jam

E vide il liceo, il gruppo grunge, i pomeriggi in una cantina che puzzava di polvere e ambizioni.

“Viva la Vida” — Coldplay

E gli tornò in mente Sorrento, inverno, il mare piatto e lui che correva cantando a squarciagola senza nessuno ad ascoltarlo.

“With or Without You” — U2

Shelley.

Sempre Shelley.

E ora…

un’altra immagine si faceva strada nella playlist del cuore.

Rosy.

Un nome che aveva il suono di una nota lunga e pulita.

Non amore — non ancora — ma una presenza.

Una possibilità.

Un accordo nuovo che non sapeva ancora suonare.

Il Ricordo dello Zio Armando

Il deserto non era solo sabbia.

Era memoria.

Mentre correva, Boruma rivide lo zio Armando nella cucina della casa di Sorrento, la luce che filtrava dalle persiane, l’odore delle matite e dell’olio di lino.

«Tu non devi diventare qualcuno per forza,» gli diceva sempre.

«Diventa te stesso, e vedrai che il mondo prima o poi si accorge.»

Fu lui, più di chiunque altro, a tirarlo fuori dalla timidezza dopo la morte della madre.

Fu lui a portarlo con sé a San Gimignano a lavorare in un ristorante.

Lì, tra turisti, piatti, sorrisi, parole scambiate con estranei, Boruma imparò la sua prima grande verità:

la gente, se la guardi negli occhi, ti regala un pezzo di sé.

E quel pezzo è sempre prezioso.

Napoli nel Cuore

Il sole iniziò a calare e il cielo virò al rosso intenso.

La sabbia sembrò incendiarsi.

A Boruma venne in mente la sua Napoli.

La città che gli aveva insegnato la resilienza, la malinconia, la gioia.

La città che lo aveva amato anche quando lui non sapeva amare se stesso.

Si rivide camminare per Spaccanapoli, tra le botteghe dei presepi, gli odori di sugo, i colori dei mercati.

Si rivide giovane, triste, ma mai solo.

A Napoli non si è mai soli.

Nemmeno quando ti sembra di esserlo.

Il mare del golfo…

Il sale che ti brucia le narici…

Il Vesuvio che ti guarda come una madre severa…

Boruma sorrise mentre correva.

«Napoli è dentro di me,» sussurrò, «anche qui, dove nessuno la conosce.»

Il Segnale della Casta

Il sole scese.

Il vento si fece più freddo.

Il cielo si riempì di stelle grandi e chiare come occhi antichi.

Fu allora che Boruma sentì Cru irrigidirsi.

Il cane sollevò la testa, orecchie tese, annusando l’aria.

«Che c’è, ambasciatore?» bisbigliò Boruma.

Cru ringhiò appena.

Un suono lontano — come un ronzio elettrico — attraversò il vento.

Poi…

una scia luminosa all’orizzonte.

Non era una stella.

Non era un drone egiziano.

Era qualcos’altro.

Un segnale.

Un monito.

Un richiamo.

La Casta non aveva finito con lui.

E il Sigillo… vibrava sotto la stoffa.

Boruma posò una mano sul tessuto, sentendo un calore che non era umano.

«Va bene,» mormorò. «Se Luxor è la prossima tappa, allora venite. Io non scappo.»

Cru gli leccò la mano, come a dire: Non sei solo.

Boruma guardò verso sud: la via per Luxor era buia, ma chiara.

Inspirò.

E continuò a correre.

Con il cuore pieno di musica, e il deserto che iniziava — finalmente — a cantare insieme a lui.

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5 risposte a “CAPITOLO XL — Le Note del Deserto”

  1. Avatar marina

    Bello! Mi piace anche la playlist!

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