CAPITOLO XLIV— Il canto sotto il Vervece

Il Nilo scorreva lento, ma nella mente di Boruma il tempo aveva cambiato direzione.

Non era più a Luxor, non era più fra templi e sabbia antica. Era tornato al mare.

Non a quello lontano, straniero. Ma a quello che gli scorreva nel sangue.

Massa Lubrense.

Marina della Lobra.

Il Vervece.

Lo rivide come se fosse lì davanti a lui:

lo scoglio solitario nel blu profondo, il faro come un occhio vigile sulla notte, e sotto—nelle viscere fredde del mare—la statua silenziosa della Madonna, circondata da un silenzio sacro e tremante.

E sopra l’acqua… le barche.

Decine di pescherecci che avanzavano lenti, come in una danza antica insegnata dal tempo stesso. I volti dei pescatori erano scavati dal sale e dal sole, ma avevano occhi limpidi, occhi pieni di rispetto e gratitudine. Non avevano nulla, eppure sembravano possedere l’universo.

Era stato Giancarlo a portarlo lì.

Giancarlo…

Ci avevano messo un attimo a riconoscersi, in quel corridoio d’ospedale a Firenze, molti anni dopo quell’estate lontana.

«Ué… ma tu… tu si’ ‘o guaglione ‘e Marina d’â Lobra?»

«E tu si’ chill’ ‘e ‘o pallone scassato ‘int’a sagrestia?!»

E poi una risata lunga, potente, liberatoria.

Una risata che aveva fatto voltare i pazienti, i colleghi, i muri stessi.

Giancarlo era cresciuto.

Sempre alto, sempre massiccio. Un corpo da guerriero e un’anima da monaco.

Gli occhi scuri e profondi tradivano un’origine lontana, antica, quasi mediorientale — come se il sangue dei popoli passati fosse ancora vivo dentro di lui.

Cattolico devoto, ma mai cieco.

La fede per lui non era un muro: era un ponte.

Lo invitò quella sera.

«Vuo’ venì cu’ mme, Borù? Nun è ‘na festa… è ‘nu giuramento d’ ‘o mare.»

E lui andò.

Il cielo era nero come velluto.

La banda del paese suonava una melodia lenta, struggente.

Le barche si muovevano come un unico grande corpo guidato dalla luna.

E poi, quando arrivarono davanti al Vervece, il silenzio.

Un silenzio irreale.

Come se Dio stesso stesse trattenendo il respiro.

Boruma guardò i volti dei pescatori, di Giancarlo, della gente sulla riva. Vide fede, paura, speranza, coraggio. Vide uomini pronti a sfidare ogni notte il mare per continuare a vivere un altro giorno.

Capì una cosa in quell’istante:

La vera preghiera non è nelle parole.

È negli occhi di chi non smette di credere.

Quando la statua tornò in superficie, accompagnata dal bagliore tremolante delle fiaccole, qualcuno pianse.

Non era tristezza. Era riconoscenza.

E poi i fuochi.

Un’esplosione di luce nel cielo — come se il mare rispondesse al cielo e il cielo al mare.

Giancarlo gli mise una mano sulla spalla.

«Vire, Boruma… nun è ‘a religione che c’ ‘a salva.

È ‘a capacità ‘e vulé bene ‘e criature.»

E aggiunse, guardandolo dritto negli occhi:

«Tu, quanno curi ‘a gente, ‘o faje pe’ Dio pure si nun ‘o sape.

Si ‘na medicina ca cammina.»

Quelle parole gli erano rimaste addosso come un marchio luminoso.

Fu Giancarlo a insegnargli che la vera empatia è azione.

Che una risata può tenere in vita una persona.

Che una mano sulla spalla può salvare più di mille sermoni.

E quando Boruma partì per Como, lasciando Napoli, il mare e la nonna, Giancarlo gli disse l’ultima cosa importante:

«Si te perd ‘int’ ‘o friddo d’ ‘o munno, Borù…

ricuordate sempe d’ ‘o mare.

‘O mare nun tradisce maje.»

Ora, a Luxor, davanti a un Sigillo che parlava di unione tra le religioni, Boruma capì qualcosa di immenso:

Il messaggio non era nuovo.

Lo aveva sempre saputo.

Lo avevano insegnato:

– sua madre nella cucina piena di vapore e canti

– sua nonna con le mani infarinate

– Dante con la sua voce da profeta sui marciapiedi di Napoli

– Giancarlo con la sua fede quieta e potente

– e persino Rosy, con il suo silenzio forte e il suo amore dato ai bambini senza chiedere nulla in cambio

Il Sigillo non stava rivelando una scoperta.

Stava ricordando al mondo qualcosa che il mondo aveva dimenticato:

L’amore è più grande di ogni religione.

E l’empatia è la vera lingua universale.

Cru gli passò accanto, silenzioso, e Boruma sorrise.

Sentì il cuore gonfiarsi, come quando da ragazzo correva lungo il lungomare di Mergellina canticchiando “Radio Ga Ga”.

E per un istante breve ma eterno, capì:

Non era solo in quel viaggio.

Non lo era mai stato.

Il Sigillo brillò appena sotto la stoffa.

Qualcosa stava per accadere.

E questa volta…

il mondo stava davvero per ascoltare.

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