Il Nilo non era un fiume, quella notte.
Era un animale antico.
Respirava lento, possente, come se ogni onda fosse un pensiero millenario risalito dall’oscurità del tempo.
Boruma, in piedi sulla piccola feluca che avanzava nel silenzio, sentiva la pelle vibrare.
Non era paura.
Non era nemmeno tensione.
Era presagio.
Cru, seduto accanto a lui, teneva lo sguardo fisso sull’acqua. Le orecchie tese, immobili.
Il vento gli muoveva il pelo, ma lui non reagiva: come se ascoltasse qualcosa che Boruma non poteva ancora sentire.
La notte era così scura che le stelle sembravano bruciare.
E in quella bruciatura, in quell’immenso velluto nero, Boruma avvertì un movimento.
Non sulle rive.
Non tra le canne.
Sulle acque.
«Ambasciatore,» mormorò, «qualcosa non quadra.»
Cru abbassò appena la testa.
Un gesto minimo.
Quasi umano.
Come un sì.
Boruma strinse la sciarpa che proteggeva il Sigillo.
Lo sentiva caldo.
Ma non come a Luxor.
Non come quando cantava la verità.
Adesso quel calore era diverso.
Era… inquieto.
Teso.
Come se avvertisse anche lui una presenza nascosta.
⸻
Le ombre sul fiume
La feluca scivolava sull’acqua guidata da un barcaiolo muto, un uomo anziano che sembrava scolpito nel legno.
Non parlava da quando erano partiti dal piccolo molo.
Ogni tanto lanciava un’occhiata al cielo, poi al Nilo… e scuoteva la testa in un gesto superstizioso.
Boruma non lo interruppe.
La superstizione è spesso solo la faccia antica della saggezza.
All’improvviso il respiro del fiume cambiò.
Un’onda, larga come un cavallo in corsa, si sollevò senza vento.
Senza causa.
Senza suono.
La feluca oscillò.
Cru ringhiò.
Il barcaiolo fece il segno della croce.
«Non è il fiume,» sussurrò Boruma. «Sono loro.»
L’acqua si aprì.
Dal nero più nero della notte emerse una barca lunga, sottile, silenziosa.
Nessuna lanterna.
Nessun rematore.
Solo tre figure immobili, coperte da mantelli neri che cadevano come drappi funebri.
La Casta.
Non quella dei sicari.
Non quella dei manipolatori.
Questa era la Casta dei Veglianti, gli occhi spietati del potere.
Cru fece un passo avanti, pronto.
Boruma inspirò, richiamando ogni fibra del training autogeno.
Fronte fresca.
Cuore caldo.
Corpo pesante.
Mente libera.
La barca nera si fermò accanto alla loro.
La voce che parlò non aveva età.
Era un sussurro che sembrava venire dal fondo dell’acqua.
«Boruma Santoro di Napoli… tu porti ciò che non ti appartiene.»
Boruma si voltò lentamente.
«È strano,» disse con un sorriso sottile, «perché finora nessuno è riuscito a convincermi del contrario.»
Una risata. Fredda.
Il primo dei Veglianti scoprì il volto.
Non era un uomo cattivo da vedere.
Anzi… era troppo bello.
Troppo simmetrico.
Troppo perfetto.
E in quella perfezione c’era qualcosa di innaturale.
«Non cerchiamo il Sigillo per distruggere la verità,» disse il Vegliante.
«Vogliamo proteggerla.»
«Da chi?» chiese Boruma. «Dalle persone?»
«Dalla libertà,» rispose l’uomo.
«La libertà è un’arma che gli uomini non sanno usare. Il Sigillo mostra che tutte le religioni sono sorelle. Che gli antichi dei parlavano la stessa lingua. Che nessun popolo è superiore. Che nessun potere è eterno.»
Guardò Boruma come un professore guarda uno studente lento.
«Immagina cosa accadrebbe se tutti lo sapessero davvero.»
Boruma lo fissò.
Poi sorrise.
Un sorriso napoletano, dolce e graffiante.
«Accadrebbe che avremmo un mondo migliore.
E questo… vi fa paura.»
Il Vegliante non si mosse.
Ma il Nilo tremò.
⸻
Il loto nero
La donna accanto al Vegliante alzò una mano.
Dalle sue dita cadde un petalo.
Nero come l’inchiostro antico.
Un loto.
Un fiore proibito, simbolo di morte apparente e rinascita alterata.
Appena toccò l’acqua, il fiume cambiò colore.
Diventò denso.
Scuro.
Silenzioso.
Cru arretrò.
Boruma sentì il Sigillo bruciare come una brace viva.
«Questa è la nostra offerta,» disse il terzo Vegliante.
«Dacci il Sigillo. E in cambio ti ridaremo ciò che hai perso.»
Una figura emerse dalla barca nera.
Una figura vestita di luce pallida.
Un volto.
Shelley.
Non un’illusione come nella fortezza.
Questa aveva odore.
Aveva respiro.
Aveva peso.
Boruma sentì il cuore spezzarsi in mille schegge.
«Amore mio…» sussurrò la donna.
Cru guaì, inquieto.
Nayla aveva detto: Domani verranno ombre più sottili. Più intelligenti.
Eccole.
Boruma chiuse gli occhi.
Sentì la mano della madre sul capo.
La voce della nonna.
Il canto di Dante.
Il sorriso di Giancarlo.
La luce di Rosy.
La sua vita intera gli corse dentro.
A ondate.
Come il Nilo.
Quando riaprì gli occhi, la risposta era già nel suo sguardo.
«No.»
La figura di Shelley si dissolse.
Il Sigillo si illuminò sotto la sciarpa.
Un boato attraversò il fiume.
⸻
L’attacco
La barca dei Veglianti si mosse all’unisono.
L’acqua gorgogliò.
Ombre si sollevarono dal fiume — braccia d’acqua, mani liquide, tentacoli di tenebra.
Cru balzò.
Boruma afferrò un remo.
Il barcaiolo gridò una preghiera.
Il Nilo esplose in una battaglia di luce e oscurità.
Il Sigillo pulsò, vibrò, cantò —
un canto terribile e bellissimo,
un canto che parlava lingue morte e future,
un canto che Boruma non capiva
ma che riconosceva.
Perché era il canto dell’unità.
Della verità.
Dell’amore universale.
La barca tremò.
Cru azzannò un’ombra liquida.
Boruma colpì un tentacolo d’acqua e il fiume urlò.
I Veglianti indietreggiarono.
«Non puoi resistere a lungo!» gridò il primo.
«Non sto resistendo,» rispose Boruma,
«sto scegliendo.»
Un lampo squarciò il cielo.
Il Sigillo esplose di luce.
La barca si capovolse.
Il mondo diventò bianco.
⸻
L’ultimo respiro
Quando Boruma riaprì gli occhi, era sulla riva.
Cru gli stava leccando la fronte.
La feluca era distrutta.
La barca dei Veglianti… scomparsa.
Sul petto, il Sigillo era freddo.
Calmo.
Silenzioso.
Ma diverso.
Come se qualcosa dentro di lui si fosse svegliato.
Cru guaì piano.
«Lo so, ambasciatore,» mormorò Boruma, sollevandosi con fatica.
«La guerra è iniziata davvero.»
E poi, guardando il Nilo che tornava lento, tranquillo, innocente come un bimbo addormentato:
«Andiamo, Cru.
Luxor non è più sicura.
E io… io devo capire cosa vuole da me il Sigillo.»
Si incamminò verso il deserto del Sud.
Con un nuovo peso nel cuore.
E una nuova luce negli occhi.

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