Il primo colpo non fu un rumore.
Fu un vuoto.
Boruma lo avvertì mentre correva lungo il margine spezzato della città, dove Luxor smetteva di essere storia e tornava polvere, ferro, cavi scoperti. Un vuoto nell’aria, come quando un temporale sta per cadere ma il cielo trattiene il fiato.
Cru si fermò di colpo.
Non ringhiò.
Questo, Boruma lo sapeva, era il segnale peggiore.
Il secondo colpo arrivò subito dopo: passi.
Non dietro.
Ai lati.
Boruma scartò senza pensarci, il corpo che decide prima della mente, come quando in corsia ti arriva un’emergenza e non hai tempo per la paura. Sentì il Sigillo vibrare contro il petto, caldo, vivo, non come un allarme ma come un avvertimento antico.
— Ora, pensò.
La Casta aveva smesso di osservare.
Una sagoma sbucò da un vicolo, un’altra dal tetto basso di una bottega sventrata. Non correvano come soldati. Correvano come chi sa di non dover spiegare nulla a nessuno.
Boruma accelerò.
Non per fuggire.
Per scegliere il terreno.
Cru scattò davanti, tagliando una traiettoria impossibile, costringendo uno degli uomini a frenare. L’altro tentò di chiudergli la strada. Boruma si abbassò, sentì il vento della mano che mancava il volto di pochi centimetri.
— «Vi hanno insegnato a inseguire,» disse, ansimando ma lucido, «non a capire.»
Un terzo uomo comparve più avanti.
Troppo preciso.
Troppo calmo.
Boruma capì: non erano lì per il Sigillo soltanto.
Erano lì per lui.
Il Sigillo, sotto la stoffa, pulsò più forte. E in quel battito Boruma vide tutto: gli invisibili che avevano illuminato il mondo senza statue, senza titoli, senza gloria. Infermieri, pescatori, donne che cucinavano per sfamare la speranza, uomini che avevano detto “no” al potere e “sì” all’amore.
— «È per questo che vi fa paura,» mormorò, fermandosi di colpo.
Gli uomini rallentarono, sorpresi.
— «Perché io non sono speciale. Sono uno qualunque che ha scelto di non smettere di amare.»
Il primo si lanciò.
Cru balzò.
Boruma ruotò, colpì il fianco, non con rabbia ma con necessità. Il corpo dell’uomo cadde pesante, vivo, sconfitto ma non annientato.
— «Non uccide,» ringhiò uno degli altri.
— «No,» rispose Boruma. «Cura.»
Un colpo secco alla spalla, una spinta al ginocchio. Il secondo cadde, imprecando. Il terzo restò fermo, gli occhi fissi su Boruma come su una domanda senza risposta.
— «Perché continui?» chiese.
— «Perché ho visto cosa succede quando si smette.»
Silenzio.
Un silenzio breve, carico.
Poi un rumore lontano. Motori. Altri passi.
La città che si sveglia quando il male crede di essere invisibile.
Boruma non aspettò.
Riprese a correre.
Non verso la fuga, ma verso la direzione.
Mentre correva, pensò a Rosy — non al suo volto, ma alla sua assenza che ormai pesava come una presenza. Pensò a Napoli, che non lo aveva mai lasciato solo. Pensò a chi, leggendo un giorno questa storia, avrebbe capito che il coraggio non è non avere paura, ma non darle il volante.
Cru correva al suo fianco.
Il Sigillo batteva come un cuore che non era solo suo.
E da qualche parte, nell’ombra, qualcuno capì che Boruma non era più soltanto un portatore.
Era diventato un passaggio.
E quando un uomo diventa passaggio,
il mondo — prima o poi —
è costretto a cambiare strada.
Boruma corse finché il respiro non divenne pensiero e il pensiero si fece silenzio.
Dietro di sé non sentiva più passi, ma sapeva — con quella certezza che nasce solo dopo aver guardato la morte negli occhi — che le ombre non inseguono sempre: a volte precedono.
Si fermò sotto un arco crollato, pietre millenarie tenute insieme più dalla memoria che dalla malta. Si piegò in avanti, mani sulle ginocchia, il fiato che entrava ed usciva come una marea stanca ma viva. Cru gli si avvicinò, appoggiando la fronte contro la sua coscia.
«Bravo,» mormorò Boruma. «Hai fatto più te oggi di tanti santi con l’aureola.»
Il Sigillo si calmò.
Non smise di pulsare, ma cambiò ritmo, come se avesse riconosciuto qualcosa. Non un vincitore. Un allineamento.
In quel momento Boruma capì una cosa che nessun Custode, nessuna veggente, nessun libro avrebbe potuto spiegargli prima:
il Sigillo non cercava eroi.
Cercava coerenza.
Gli tornarono alla mente gli invisibili.
Quelli che nessuno nomina nei discorsi solenni.
Le mani che lavano, che curano, che cucinano, che tengono insieme famiglie, popoli, ferite.
Gli uomini e le donne che non hanno mai pensato di “salvare il mondo”, ma hanno salvato la persona davanti a loro.
— Gli invisibili che illuminarono il mondo — pensò.
E per la prima volta sentì che non era solo una poesia.
Era una mappa.
Riprese a camminare. Non a correre.
Ora no.
Ogni passo era un atto di resistenza contro la velocità imposta, contro l’idea che tutto debba essere immediato, consumabile, dimenticabile. Boruma sapeva che la Casta temeva proprio questo: non il Sigillo in sé, ma ciò che poteva insegnare agli uomini.
Che l’amore non è debolezza.
Che la fede non è dominio.
Che le religioni, quando tornano al loro nucleo, parlano tutte la stessa lingua:
non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te.
Pensò a Rosy.
Non come desiderio, ma come possibilità che non chiede possesso.
E questa consapevolezza lo spaventò più di qualsiasi lama.
«Se ti penso così,» si disse, «vuol dire che potrei perderti.»
E subito dopo:
«Ma se non ti penso così, vuol dire che ho già perso me stesso.»
Cru alzò le orecchie.
Un rumore lontano.
Non uomini questa volta.
Boruma sorrise, stanco ma lucido.
«Vedi, amico mio? La vita non smette mai di chiedere.»
Strinse il Sigillo sotto la giacca.
Non come si stringe un’arma,
ma come si stringe un neonato che dorme.
E mentre riprendeva a muoversi, con passo calmo ma deciso, capì che ormai il viaggio non era più solo verso un luogo, una rivelazione o uno scontro.
Era diventato una testimonianza in movimento.
E chi testimonia, lo sa:
non può più tornare indietro.

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